giovedì 10 dicembre 2015

Fifty shades of Groupie


Oggi mi ha presa male. Sto passando la serata sola a casa e non trovo consolazione nemmeno nella playlist di Spotify “SADDEST COUNTRY MUSIC SONGS EVER!” che di solito mi tira su di morale. Non perché ami il conutry, né perché le canzoni mi mettano di buon umore (o non farebbero parte della playlist “SADDEST country music songsblabla”). È che creano atmosfera, capì? Questi che si sbronzano di whiskey e si dimenticano il cavallo fuori…


Dicevo, oggi mi ha presa male e quindi la cosa più razionale e adulta da fare è trovare un capro espiatorio e svomitazzarci bile sopra, just for fun.
Chi mi conosce, sa che l’unica categoria umana che ritengo più opinabile delle sbarbine che si sentono guru del BDSM solo perché a letto si fanno sculacciare e prendere a cinghiate in pieno delirio da post-50 Sfumature di Grigio è lo scellerato macrogruppo delle fangirl.



Inoltre, chi mi conosce e mi legge (ovvero Kekko e Niki, che avevo promesso di salutare in mondovisione e quindi CIAO NIKI!) sa che sono solita fare pubblica ammenda prima di scagliarmi contro una categoria subumana, rivelando anticipatamente il plot twist che mi vede(va, nella maggior parte dei casi) parte integrante della categoria prescelta. Tutto ciò per la mia famosa tendenza a prendere le distanze da me stessa, sintomo di grande crescita intellettuale nonché di schizofrenia.

Ammetto, sono stata fan dei Green Day.


Lo sono stata visceralmente.
Portavo la cravattina rossa, mi mettevo l’eyeliner male, catene attaccate ai jeans, chitarra foderata di adesivi e adibita per un numero considerevole di anni alla sola esecuzione della variegatissima discografia della band (quindi, essenzialmente, due accordi), mosaici di poster intersecati tra loro, libri, dvd, biografie non ufficiali con notizie spesso contrastanti (DOV’È LA VERITÀ??), testi imparati a memoria, cd originali tenuti come reliquie e deliri adolescenziali simili.
Sì vabbè, ma avevo tredici anni e niente internet.

Che poi a ventuno anni suonati sia andata sola soletta all’avventura a un concerto dei Green Day giusto per fare un regalo alla mia versione più giovane e punk (non vedendoci, tra l’altro, un cavolo perché sono bassa e quindi per quel che so io possono pure aver fatto partire un cd con un live a caso registrato e aver mosso delle marionette sul palco perché davvero non ho visto NULLA di quel concerto), è un’altra storia.
In ogni caso, non ho mai raggiunto livelli di delirio ossessivo. Non sapevo i compleanni dei membri dei Green Day, né il numero di scarpe, né i nomi di eventuali mogli/figli/nipoti/cani/gatti/pesci rossi, né preferenze in fatto di cibo o altro.
Io amavo la musica dei Green Day, amavo il loro look, amavo la loro grinta e da grande volevo essere una specie di Billie Joe femmina, cazzuta e divertente, in grado di sfornare album su album usando solo due accordi.
Questa fase mi è durata tipo un paio d’anni o giù di lì. Poi io sono cresciuta, i Green Day si sono venduti pure i bulbi piliferi e i poster sono passati dal mio muro al bidone dell’indifferenziata.


Certo è che, nonostante abbia dimenticato come si tiene in mano la chitarra, così come ho scordato tutti i profondissimi testi dei Green Day, una cosa in me è rimasta invariata: il modo perverso in cui subisco il fascino del musicista. E anche qui, occorre una precisazione: non me li vado a cercare col lanternino. Nella quasi totalità dei casi, è stato il Fato a far sì che sulla mia strada si parassero prevalentemente individui in grado di suonare un qualche strumento. Lasciate che i musicisti vengano a me, diceva qualcuno.



Bene, chiusa la parentesi del mea culpa, torno al mio capro espiatorio della giornata.

Quando sei sola a casa e hai presumibilmente l’influenza, l’unica cosa ragionevole da fare è leggere le fanfiction sugli One Direction e quelle (ormai sempre più rare) su Justin Bieber, riflettendo su quanto scellerata sia questa generazione di fangirls (perché, diciamocelo, queste stronzate sono al 90% opera di ragazzine. Perché noi femmine siamo così dolcemente complicate che persino il sacro rituale onanistico necessita di preliminari e quindi non possiamo semplicemente sgrillettarci su una foto di Harry Styles, NO! Dobbiamo prima scrivere un racconto di 120 pagine su una ragazza timida e impacciata incredibilmente ma casualmente del tutto simile a noi stesse medesime che farà innamorare il cantante, che sebbene abbia schiere di condotti vaginali a disposizione sceglierà la nostra protagonista perché lei è l’unica in grado di cambiarlo nonché l’unica a tirarsela perché sebbene sia fragile come una canna di bambù agitata dal vento, lei è una giovane donna forte e indipendente che, inconsapevole della sua bellezza celata da un paio di occhiali a fondo di bottiglia e maglioni oversize, ha un carisma della madonna incoroneta).

Twilight, il capostipite di questa tragica progenie di porcherie


Crescendo, questa tipologia di personaggio straconvinto di avere il vagina power, degenera in groupie, devolvendo la stessa esistenza dei suoi singoli atomi al sostegno smodato di band locali (e spesso sfigate) che seguiranno ossessivamente tra sagre della focaccia e raduni degli amanti del fungo cardoncello, facendo la spola tra palchi e camerini, perché la musica è la loro vita, e il Fallo il loro unico dio. E se poi il fallo appartiene a uno che tiene in mano uno strumento X su un palco, non c’è tanga che tenga. Poco importa se si tratti di un vero palco o di una superficie sopraelevata ricavata da vecchi libri impilati, cassette della frutta o fogli di compensato. È nei boxer di un musicista? Allora va bene.


Siccome il mondo è bello perché è vario e io amo le liste, ecco elencate alcune delle più diffuse tipologie di groupies:

1) Il modello Belieber:
I musicisti sono creature mitologiche infallibili e perfette. Poco importa se hanno stirato 3-4 vecchiette durante il loro primo giro in Ferrari o se producono musica mediocre. La groupie modello Belieber difenderà a spada tratta i suoi beniamini, a prescindere da nefandezze varie ed evasioni fiscali. Di solito, questo tipo di fangirl è molto giovane, caratterizzata da un fervido attivismo da tastiera che la porta a sacrificare la sua giovane età curva su d un MacBook Pro (cit) e che solo in rare occasioni è possibile osservare dal vivo. 



2) Il modello Table Whore:
Normalmente legate da un filo invisibile che le costringe a orbitare a 2-3 metri dalla rockstar paesana di turno, agghindate e imbellettate oltremodo (del resto bisogna pure capirle, i concerti sono le uniche occasioni di vita mondana che hanno), gravitano sculettanti e ammiccanti nei pressi dei tavoli VIPs, sperando in qualche modo di entrare nelle grazie di chi li occupa e scroccare un bicchiere di prosecco corretto con l'antigelo che da solo vale la metà dell'irrisorio budget dell'intera band. Oh, ma vuoi mettere la soddisfazione di bere dallo stesso bicchiere del bassista della cover band dei Ricchi&Poveri?



3) Il modello Dark:
Di solito, è la tipologia più selettiva: niente capelli lunghi lisci e corvini? Niente piercing? Niente tatuaggi? E allora niente groupie darkettona. Questo modello è caratterizzato da un atteggiamento più aggressivo (talvolta senza un reale motivo), ostentatamente malinconico e cinico, che però nasconde un cuore di panna che emerge in tutta la sua sensibilità e scioglievolezza quando partono i Blink-182.



E niente, siete tanto carine e mi fate molta tenerezza. :)

domenica 1 novembre 2015

Neapolitan diary #4: il ragazzo con il tumore al cervello

[Vi avviso, è un post diverso da quelli che siete abituati a leggere qua sopra. Non lo condividerò su Facebook, resterà qui e se qualcuno lo leggerà, bene.]

Ieri sera, Halloween, dove coi morti e con la morte si gioca e si scherza, ero al locale in cui lavoro. 

Me ne stavo appena fuori dalla porta, con un tavolino traballante e tutte le mie cose per truccare i clienti da mostri, zombie e quella roba spaventosa che tanto mi piace e che tanto ha influenzato la mia vita.
Ieri sera, Halloween, su una sedia accanto al mio tavolino c’era un ragazzo che aspettava il suo turno per essere truccato da me.
Ieri sera, Halloween, una ragazza vestita da Morte, ha sollevato la falce in aria, si è avvicinata al ragazzo sulla sedia e, toccandolo con la punta della lama giocattolo, gli ha detto “presto sarai morto”.
Ieri sera, Halloween, dove coi morti e la morte si gioca e si scherza, la ragazza vestita da Morte non sapeva che, quel ragazzo, presto morirà sul serio, ucciso da un tumore al cervello che ha scoperto di avere non più di tre settimane fa e che, dicono i medici, non gli lascerà più di due mesi di vita.

Ho sgranato gli occhi in un misto di imbarazzo, tristezza e senso d’impotenza davanti a quello scherzo così inconsapevolmente crudele. Istintivamente, con lo sguardo ho cercato il ragazzo sulla sedia, come se volessi chiedergli scusa da parte di quell’ignara ragazza. Lo guardo e ha un sorriso amaro, indossato in risposta al gioco, allo scherzo. Si gira verso di me, si accorge che lo stavo guardando e scoppia in una risata isterica: “l’ha detto a me! L’ha detto proprio a me!” e ride tantissimo, dimenandosi sulla sedia immobile.
Sento le vene dei polsi gelarsi.

Questo ragazzo lo conosco appena, è un caro amico di una ragazza che lavora con me. Una ragazza che è una forza della natura e che nel giro di tre settimane è diventata una di quelle poche persone nel mondo che posso dire con sicurezza di volere nella mia vita per sempre, qualunque cosa accada.
Nemmeno lei sapeva, nessuno sapeva. Io ho conosciuto questo ragazzo e venti minuti dopo ho saputo che sta morendo, mentre cercavo goffamente di consolare la mia amica, che è piccola ed esile come un filo d’erba e sopporta le bufere come l’albero maestro di una nave di pirati.
Le ginocchia piegate da quel peso troppo grave da sostenere, lei piangeva e non sapevo cosa inventarmi per rispondere ai suoi “perché?” urlati dal pavimento del cesso del locale.
Perché non c’è una risposta, non c’è un motivo per il quale un ragazzo di ventisette anni debba morire per un cazzo di tumore al cervello. Non c’è motivo, né c’è soluzione quando il tuo corpo si rivolta contro di te e decide di attaccarti nell’unico posto che dovrebbe essere solo tuo, la tua testa. 

Non ti conosco, non so chi cavolo sei, non so cosa hai fatto della tua vita durante questi ventisette anni. So solo come ti chiami, so che sei amico della mia amica e so che tra due mesi non ci sarai più.

Ieri sera, Halloween, dove con la morte si gioca e si scherza, arriva il turno del ragazzo che con la morte ci sta danzando, lasciandosi condurre senza opporre resistenza, perché i danzatori sorridono sul palco, anche quando si slogano le caviglie.
Mi chiede quanto voglio per truccarlo, e io gli dico nulla, non c’è bisogno, mi paga il locale. Lui insiste, vuole darmi cinque euro, poi venti, poi cinquanta, “tanto io che me ne devo fare?”. Giustamente. 
Alla fine mi lascia cinque euro e mi dice “fammi Joker”.
Pulisco i pennelli, preparo il materiale e inizio a truccarlo. Lo trucco e ogni volta che gli giro la testa per disegnargli sul viso, mi sembra di maneggiare una bomba a orologeria. Chissà dov’è il tumore. Chissà quanto è grande. Chissà se gli fa male.
Lo trucco e mi sento una ladra a rubargli quei minuti preziosi. Lo trucco e maledico il colore bianco che si stende male e lo devo ripassare ottomila volte perché in questi ultimi giorni di vita questo ragazzo vuole essere Joker e, cazzo, io lo devo truccare bene. Voglio che sia felice e che per qualche ora si dimentichi di essere il ragazzo col tumore al cervello e sia solo Joker. 
E pensavo che quei minuti rubati alle sue ore contate, quei minuti che aveva deciso di passare seduto su una sediolina a farsi truccare da una perfetta sconosciuta sono stati pesanti e bellissimi. 
Avrei voluto chiedere cosa si prova, a sapere che stai per morire. 
Perché è vero che puoi fare tutti i discorsi fatalisti che vuoi, è vero che stiamo tutti sotto al cielo e nulla mi dice che tra due mesi io sarò ancora viva, o lo saranno tutti i miei amici o i miei genitori; ma sapere di avere una data certa, un tempo massimo entro il quale fare tutto, sapere che non farai mai il giro del mondo in mongolfiera, che non vivrai abbastanza da poterti specchiare e vedere da vecchio o da poterti sentire chiamare “papà”, sapere che ogni secondo che perdi in coda alle poste, sul divano a cazzeggiare davanti a un social network o a fare una cosa qualsiasi con gente che non mandi a cagare solo per educazione, è un secondo perso e non avrai un’altra possibilità di recuperarlo è un qualcosa di troppo orribile da mandare giù. 

Non ci sarà un altro Halloween, non avrai un’altra occasione per mascherarti da Joker. E quel ragazzo col tumore al cervello, una volta finito il trucco, è scappato a cercare la sua amica. L’ultimo Halloween della sua vita, ha deciso di passarlo truccato da Joker e ha scelto di farsi truccare da me.

venerdì 16 ottobre 2015

Napolitan diary #3: centralinista, to pay the bills

Lo scenario tipico è la casa paterna.
Tre-tre e mezza del pomeriggio, orario pennica. Riposino. Siesta. Qualunque sia la parola con la quale indicate quella mezz'oretta fisiologica di nullafacenza e pantalone sbottonato tra il pranzo e il resto della giornata..
Squilla il telefono.
Tre suonerie diverse: quella del fisso e quelle dei due cordless che abbiamo da cinque-sei anni e le cui suonerie ci scocciamo di sincronizzare per partito preso e quindi una fa BIRIBIRIBIRIBIRI e l'altra una roba tristissima, tipo valzer dell'agonia che ti chiedi perché abbiano composto una suoneria simile per un cordless. Cioè, a che pro?
Dicevo, suona il telefono e al secondo squillo senti mio padre che fa l'appello di tutti i santi del calendario/divinità pagane/divinità mono e politeiste affiancandoli ora a parti anatomiche perlopiù situate in zona inguinale, ora ad animali da cortile. Sì perché è vero che abbiamo due cordless da anni, ma è anche vero che ancora dobbiamo evolverci a tal punto da portarceli appresso onde evitare di doverci appunto prendere lo sbattone di alzarci ogni volta che qualcuno chiama, soprattutto durante le ore devolute al quotidiano muschiare after lunch.
Call center.
Quella voce sempre uguale, quei nomi che ti vengono sbattuti in faccia e che dimentichi nel momento stesso in cui vengono pronunciati perché mentre loro a te dicono "Pronto buongiorno sono Marco di Vodafone" tu mentalmente lo hai già arrotato con l'Ape Car. 
Di solito, è subito dopo l'enunciazione della ditta di appartenenza che scatta la filippica di mio padre.

Urlata, comprensiva di minaccia di denuncia per stalking.

E niente, io i call center li odio. 
Ammetto di aver chiuso telefoni in faccia, di aver finto di essere la figlia minorenne o la domestica filippina. 

Poi, sono finita dall'altra parte e mai come in questo momento la metafora più azzeccata per descrivere la mia vita è quella del salmone che nuota controcorrente, risale le cascate e finisce negli all you can eat cinesi a 10 euro.

Hai presente quando sei in coda al supermercato e senti la vecchietta davanti a te (che ovviamente era dietro di te, ma ti ha chiesto di passare avanti in nome della sua senilità nonostante abbia due carrelli pieni di roba che ti chiedi se sarà lei o la busta di pane mulino bianco ad ammuffire per prima) parlare dei fantomatici laureati che affollano i call center, magari proprio mentre tua madre ti dice che il pezzo di carta è sempre meglio averlo? Beh, così è.

Il pezzo di carta è sempre meglio averlo, dovessero finire i kleenex per asciugarti le lacrime (e dovessi essere troppo povero per comprartene altri).

Capita, quando hai ventiquattro anni ed esperienze lavorative pressoché inesistenti (però hai il pezzo di carta, eh!), di avere urgenza di pagare l'affitto.  E loro, i call center, sono lì ad attenderti come quei pesci degli abissi che hanno la lucettina in testa per attirare le prede e dodici fila di denti aguzzi per smembrarle. 

Che saranno mai, tre ore al giorno?
Dopotutto devo solo star seduta, dire le solite cose e per il resto posso pensare ai fatti miei, no?

Illusa.
Sciocca.
Pazza.
Visionaria.
Ora, non voglio fare la parte di quella che si lagna del lavoro, perché alla fine in quell'ufficio mi ci trovo bene. Voglio dire, le pareti sono di un bel giallo canarino, i colleghi sono tutti simpatici e quando arriva l'aggigghio collettivo l'atmosfera si distende e i minuti sembrano passare molto più velocemente.
Il problema non è tanto il lavoro - alienante, certo, ma non sto spaccando sassi -, il problema è chi c'è dall'altra parte.

Davvero, io lo capisco che lavorate e che al 90% sto contribuendo alla deflagrazione delle vostre gonadi.
Io lo capisco che a nessuno piaccia fare contratti per telefono.
Io lo capisco che avete visto il servizio sulle truffe dei call center a Striscia la Notizia (giuro, almeno in settanta mi hanno dato della ladra a causa di quel servizio).
Capisco tutto quello che volete, avete ragione e io per prima chiamo a raccolta tutte le mie capacità zen per non rispondere male ai centralinisti.

Tuttavia, io non posso esimermi dall'invitare una commessa inacidita che mi risponde "STIAMO LAVORANDOOO NUN CE SCASSATE ER CAZZO"  a riflettere sul fatto che chiamare sconosciuti (effettuando, in media, oltre quattrocento telefonate al giorno) per tre ore di fila proponendo offerte e piani tariffari non rientra nei miei hobby e che, sorpresa sorpresa, anch'io sto lavorando.
Una tipica telefonata

Quando sei lì, in cuffia, con le palle degli occhi che vorrebbero rotolare giù dalle orbite e farsi un giro nei dintorni per vedere qualcosa di diverso da nomi, cognomi, numeri e indirizzi; la stizza di chi ti risponde al telefono la senti proprio e a volte ti ritrovi a sperare che risponda la segreteria telefonica così, giusto per ricordarti cosa sia il calore umano.

La telefonata tipo procede più o meno così:

"Pronto, buongiorno, sono Noemi e la sto contattando dagli uffici commerciali di Fastweb. È lei che si occupa delle utenze telefoniche?"
[percepisci il fastidio e l'odio dall'altra parte del telefono, condensati in un lungo sospiro che culmina in un]: "no, non c'è il titolare, torna a fine mese CCCCIAO." o altre varie scuse che analizzeremo più in là.

Oh, comunque, parentesi: quanti titolari in vacanza, in questi giorni? E tutte vacanze lunghe! "Torna a fine mese" "Torna il mese prossimo", addirittura alcuni "Non so quando rientra"! Poi dicono che c'è crisi.

Poi c'è chi non si prende nemmeno il fastidio di risponderti e ti chiude direttamente il telefono in faccia; 
quelli convinti che il pene gli aumenti di un discreto numero di centimetri ogni volta che fanno la voce grossa coi centralinisti; 
quelli che ci provano con le centraliniste; 
quelli che fanno le battute troppo simpatiche assai; 
quelli che imbastiscono scuse improbabili assemblando parole a caso ("siamo una tangenziale" "sono a un bilico e non posso parlare"); 
quelli che ti fanno richiamare ottocento volte per poi dirti che non sono interessati o che sono già nostri clienti; 
quelli che vanno su tutte le furie se gli chiedi la data di nascita (mi sono saltati ben due contratti, così. Davvero, non vi giudico se siete vecchi).

"Smettetela di chiudermi il telefono in faccia..."


La cosa frustrante (una delle tante, in effetti) è che sta gente non puoi mandarla a cagare.
Non puoi dire che le loro battute non fanno ridere un cazzo di nessuno, non puoi augurar loro che le loro figlie finiscano in un call center a sentirsi dire da anonimi porci "continua a parlare, mi sto segando" per quattro euro all'ora. L'unica cosa che puoi fare è salutare cortesemente, chiudere la chiamata e spuntare una delle caselle contenenti i possibili esiti di una telefonata andata KO:

- Non interessato
- Non risponde
- Già cliente Fw
- Cliente infostrada/vodafone/telecom/teletu
- Numero errato
- Occupato
- Fax
- Segreteria
- Richiama
- Richiamo personale
- Rifiuta ascolto

Il tasto "rifiuta ascolto" è l'unico modo che ho per segnalare questa gente, soprattutto da quando ho scoperto gli shortcuts sulla tastiera, che mi risparmiano lo sbattone di aprire ottomila menù a tendina. Da allora, ogni volta che premo il benedetto tasto 9 che seleziona in automatico l'opzione Rifiuta ascolto, rivivo l'ebbrezza che provavo quando a scuola scrivevo i nomi dei cattivi alla lavagna, in preda al delirio di onnipotenza. Quel Rifiuta ascolto ogni volta significa qualcosa di diverso, ogni volta indica un livello differente di maleducazione, menefreghismo e imbecillità.

Rivolgo un accorato appello agli sviluppatori di 2bevoip, il programma che utilizzo per effettuare le chiamate:
amici, compagni, fratelli. Io, Noemi D'Alessandro, umile centralinista, vi chiedo di aggiungere le seguenti opzioni tra le già numerose scelte per comunicare l'esito delle telefonate:
- Maleducato
- Cafone
- Chiude il telefono in faccia
- Mente 
- Sta palesemente copulando
- Titolare in vacanza
- Titolare morto (serio, muoiono come mosche. Fate qualcosa per 'sti titolari, per cortesia.)
- Tutti morti (non potete capire a quante stragi familiari ho assistito, impotente, durante questo mese)
- Non si sa quando torna (con richiamo automatico alla redazione di Chi L'ha Visto?)
- Marpione
- Ha detto che non gl'interessa l'offerta, ma l'ha fatto gentilmente e ha una voce sexy quindi lo perdono
- È in causa con Fastweb (sono così tanti che a volte mi assale il dubbio di lavorare per una qualche legione del Male)

Ah, e se poi aggiungete la possibilità di giocare a Snake/Pacman mentre si è in chiamata, siete dei cazzo di miti.

E ora mi rivolgo a voi, vittime delle mie offerte e dei miei piani tariffari:
Lo so che i call center sono fastidiosi. Lo so che vi interrompiamo mentre state lavorando, mentre siete al cesso, dormite, scopate, aspettate che il vostro ex vi chiami perché voi lo conoscete e sapete che non fa sul serio, non può lasciarvi così dopo tanti anni e presto si renderà conto di cosa sta perdendo per sempre. Io lo so questo. Però vi chiedo il piccolo sforzo di mettervi per un attimo nei nostri panni e di ricordarvi che dietro quelle voci impostate, dietro quei "sorrisi telefonici" (così si chiamano, in linguaggio tecnico) ci sono persone che fissano schermi con gli occhi sbarrati e sorrisi isterici. Ci sono persone che un domani andranno via da lì e che potrebbero essere sostituite
da voi stessi o dai vostri figli, amici, parenti, nipoti, criceti. 
Quindi, per favore, siate gentili. 
Illustrazione grafica del "sorriso telefonico"

Altrimenti vi reinserisco il vostro numero nel sistema e vi richiamo a oltranza, fino alla fine dei vostri miserabili giorni. Stronzi.



martedì 22 settembre 2015

Neapolitan diary #1: Storia di un'imballata che s'addà scetà

La prima volta in cui ho messo piede a Napoli, avevo diciotto anni. Era l’ultima gita scolastica, avevo  seri problemi a mettere l'eye-liner e pensavo che le magliette larghe e sformate di Decathlon mi conferissero un aspetto trasandato e quindi sexy. Fu per questo che un ragazzino del luogo, orecchino zirconato trafiggente il lobo e taglio da moicano, si sentì in dovere di farmi notare che non era esattamente così, passandomi affianco e urlando uno sprezzante “marò, quant si bbrutt”.
Da quel giorno, non ho mai più considerato le magliette doymos qualcosa di più dignitoso di un pigiama o di un outfit da supermercato sotto casa.


Una foto di quella precipua gita.
Giacca a vento da sciatore (Decathlon)

Perché Napoli è così, se deve insegnarti, lo fa con le bastonate. Non ci sono avvertimenti, segnali, nessuno che ti dice “senti guarda, questa cosa qui la stai sbagliando”. Non ci sono le mezze misure, o le cose le fai bene o “ti fanno una latrina” fino a quando non ti svegli.

Sin da piccola, ho desiderato vivere qui. Mio nonno, il papà di mia mamma, era napoletano. Io non l'ho mai conosciuto, ma la mamma mi ha sempre raccontato di lui, di quanto fosse solitario e taciturno, delle serate intere che passava chino sulla scrivania, illuminato da un'unica flebile lampadina, curvo sui suoi album di francobolli rari (che per lui erano la cosa più preziosa al mondo), e di come gli brillavano gli occhi quando parlava della sua città - Napoli -, mentre con la matita tracciava le linee essenziali delle strade del Vomero - dove giocava da bambino - usando il retro di vecchi scontrini. Avrebbe voluto tornare nella sua città con mia mamma, farle studiare lì architettura e ripercorrere quelle strade a lui così care, ma il destino ha voluto altro per lui, e mio nonno si è spento a Bari, desiderando fino alla fine di scorgere per l'ultima volta le vette del Vesuvio.

Sono cresciuta ascoltando le storie del nonno, filtrate dai ricordi e dalla voce di mia mamma, che pure Napoli non l'aveva mai vista. Ascoltavo rapita le storie di questa terra spettacolare, viva e colorata, in cui erano nati Totò, Eduardo, Sophia. La terra del caos meraviglioso, con quei vicoli caratteristici, i panni colorati appesi ai fili, le signore coi vestiti a fiori che fanno la spesa al mercato, gli scugnizzi per strada e Pulcinella e pizza e mandolino. 

Effettivamente, per certo numero di anni ho avuto una visione un tantino distorta e stereotipata di Napoli. Però, capitemi, io non l'avevo mai vista.
Napoli la capisci (più o meno) quando la vivi, quando ti ci perdi e ti ci trovi. E io, qui, mi sono persa innumerevoli volte, in innumerevoli modi.
Venire a vivere qui, cercare un lavoro, crearmi uno spazio in questo microcosmo è una continua sfida per me, che abito principalmente nella mia testa. Non è permesso distrarsi, non è permesso sbagliare. Non è permesso deludermi e deludere. Non è permesso continuare a esistere come puro spirito, qui devi essere carne viva e pulsante, anema e core.

E a chi mi chiede perché, tra i miliardi di posti e città del mondo, abbia scelto proprio Napoli, posso solo dire che, ogni volta che sono venuta qua, è sempre il core che ho seguito.



faccio la poser con gli attrezzi da lavoro giusto per far capire che sto facendo i lavori in casa, in realtà ho dei valletti autoctoni che mi aiutano e che ringrazio con tutto il mio cuore.

Neapolitan Diary #2: The CV struggle

Il mio Curriculum Vitae è il riassunto di quell'allegro psicodramma che è la mia esistanza. L'eterna lotta tra i miei ottomila interessi, che si scontrano con i miei effettivi talenti, che cozzano contro il più venale e impellente bisogno di cash.

Ogni volta che ho chiesto consigli su cosa scrivere sul CV e come scriverlo, mi è stato risposto "scrivi tutto, ESAGERA!" e quindi quella volta che ho truccato un'attrice decaduta e mentalmente labile per un servizio fotografico penoso con annessi flosci capezzoloni e pelo pubico svettante in bella vista ambientato in casa sua e che in capa a lei avrebbe dovuto riscattarla e prolungare il suo agonizzante canto del cigno di qualche mese (il tutto per la pazzesca cifra di venti euro), diventa "ho esercitato la professione di Make Up artist presso privati". Che fa molto più figo e professionale.

Così come quella volta in cui mi sono distrutta la schiena per sei ore consecutive in un noto negozio di cake design a Bari, tra dolcetti, muffin, biscottini e torte intofate di pasta di zucchero truccando grandi e piccini per Halloween e ricevendo solo la metà del compenso stabilito perché "o prendi questo o te ne vai a fanculo" diventa "ho partecipato come performer durante feste ed eventi organizzati da negozi ed associazioni". Che detto così quasi mi fa dimenticare l'enorme delusione provata quando, oltre alla paga ridotta, la proprietaria mi ha porto un anello gommoso a forma di occhio che s'illuminava, come regalo. Grazie, oh magnanima padrona.

Ma quindi, devo scriverci proprio tutto, nel CV? Oppure devo eseguire una scrematura delle mie esperienze, escludendo quelle meno "dignitose" e ponendo l'accento sulle altre? I feedback positivi di ebay valgono come referenze? E tutte le volte che ho sconfitto la Lega a Pokémon Zaffiro?



Ché poi, tralasciando il discorso per il quale ogni lavoro onesto è dignitoso, se devo proprio dirla tutta, ho ricevuto più gratificazioni quando ho lavoricchiato a nero. E' per questo che nel mio CV scriverò senza vergogna che ho fatto:


- Assistenza, incitamento e gratificazione durante l'espulsione scarti di digestione (sia di natura solida che liquida) del Canis lupus familiaris Linneaus appartenente al nucleo familiare risiedente nell'appartamento attiguo a quello della sottoscritta. Si noti che la prestazione comprendeva un subitaneo servizio ripristino dell'originaria lindezza del suolo pubblico.
(pisciavo il cane della signora di sopra e poi pulivo)

- Istituzione di specifico e apposito corteggio privato costituito esclusivamente da me stessa medesima al fine di scortare il primogenito della famiglia risiedente nel condominio adiacente a quello della sottoscritta durante l'insidioso tragitto congiungente la dimora del diligente puello all'edificio scolastico in cui il suddetto apprendeva le basi della nostra amatissima ed italica cultura. Sia premura del lettore esaminante il presente CV notare che era scrupolo della scrivente stimolare la mente del preadolescente con contenuti che suscitassero il suo vivo interesse, onde rendere piacevoli ed educative le tratte percorse, spaziando da argomenti di attualità a discussioni moventi sul piano dell'irrealtà ("moh, ci pensi tornano i dinosauri a Bari? Tu che fai se vedi un T-Rex?") sollecitando così l'immaginazione del fanciullo. Si noti, inoltre, che tal percorso (formativo, oltre che meramente stradale) si è perpetuato per un lasso di tempo durato quattro anni solari consecutivi.
(accompagnavo il figlio della vicina a scuola e ci dicevamo i fatti)

- Gestione contabilità e contatti col pubblico - privati e fornitori - presso studio di amministrazione beni immobili. Manutenzione computer e macchine fotocopiatrici. Aggiungasi che tal esperienza ha avuto un ruolo fondamentale all'interno della mia formazione, conferendomi un'innata capacità di problem solving in situazioni di estrema criticità.
(ho lavorato nello studio di mio padre e difendevo il portatile quando lo prendeva a cazzotti)

- Svolto servizio di tutoraggio educativo e supporto allo studio a beneficio di soggetto afflitto da Disturbi Specifici dell'Apprendimento.
(ho fatto doposcuola a un bambino dislessico)

Svolto servizio di tutoraggio educativo e supporto allo studio a beneficio di soggetto afflitto da -seppur non patologico- deficit mentale.
(ho fatto doposcuola a un bambino trimone)

- Segretaria, assistente, portaborse e personal shopper presso studio legale itinerante.
(facevo essenzialmente da badante a un avvocato incapace ed inetto alla vita che essenzialmente aveva il suo studio nella sua auto - tipo Lionel Hutz dei Simpson - e che mi ha licenziata perché non gliel'ho data e tutt'ora mi deve dei soldi. Se mi leggi, muori male.)




Bene. Aggiungo che sono diplomata al Liceo Classico e Laureata in Lettere e Filosofia et voilà, cessi di tutti i locali di Napoli e provincia, preparatevi ad essere lavati dalle mie colte mani!

martedì 21 luglio 2015

Hà sciut.

Dire che in questi ultimi due mesi non ho avuto né tempo né testa libera per sedermi al pc e scrivere due righe qua sopra è un eufemismo. Cioè, in realtà non credo sia proprio un eufemismo, ma un'altra figura retorica che non sono tenuta a sapere perché tanto mica sono laureat...AH NO.

Ebbene sì, dopo semestri di falsi allarmi;
dopo improbabili avventure in segreteria;
dopo camminate chilometriche sotto il sole cocente del Madonnella alle dodicimenoseiminutiprimi per andare a casa di quella cariatide del mio relatore e fargli firmare un cavolo di foglietto che lui non voleva firmare perché "tanto abbiamo tempo e in segreteria sono flessibili, sono trent'anni che faccio questo lavoro, vuole che non lo sappia?" e che ovviamente si è rivelato di vitale importanza a sei minuti dalla chiusura della sù citata segreteria prima del weekend durante l'ultimo giorno utile per la consegna di tal foglietto;
bici rubate e poi ritrovate;
improperi in qualsiasi lingua conosciuta/viva/morta/inventata;
gli ultimi due esami preparati nel giro di tre settimane con conseguente e catastrofico affossamento della media ponderata;
tesi scritta in tre giorni in una lingua molto simile all'italiano scrauso del leghista medio con annesso capitolo dedicato all'utilità dei Bat-Capezzoli che è passato inosservato dal momento che tra segreteria e relatore ti chiedono ottocento copie della tesi ma nessuno la legge
... e tante tante altre, Scippatò.

Dicevo, dopo tutto ciò e molto altro che non sto qui a dire perché NOPE NOPE NOPPITY NOPE, ha sciut.
È andata.
Ora posso fieramente scrivere con l'uniposca dorato sul citofono di casa mia DOTTORESSA.

Siccome i ringraziamenti non li ho scritti nella tesi, volevo scriverli qua sopra ma il post sarebbe diventato troppo personale e soprattutto più che ringraziamenti stavano diventando una serie di vaffanculi a lettere cubitali, che partono dal mio microcosmo altresì detto "cas'm" e arrivano all'universo tutto.
Quindi, siccome sono stati giorni (ormai quasi una settimana, in realtà) di festa (tipo principessina insomma) non voglio avvelenarmi ulteriormente il fegato. Ché già sacc come lo vedo...




sabato 30 maggio 2015

🇫🇷🇯🇵🇳🇱

Credo sia giunto il momento di accettare pacatamente il fatto che ogni mia lovestory debba portarmi all'inevitabile odio per una nazione e tutta la razzaccia sua 

giovedì 28 maggio 2015

L'adolescenza di internet + resoconto annuale in appendice

Sempre più spesso mi trovo a fare i conti con la maleducazione internettiana.
Il dover fare i cinici a tutti i costi perché fa molto bello e dannato mostrare di non avere un'anima, dipingersi come tanti moderni Baudelaire disillusi dalla vita e prendere di mira lo/a stronzo/a di turno per un motivo o per l'altro, farlo diventare virale una o due settimane e poi buttarlo nel dimenticatoio per sempre, lasciandolo solo coi suoi sensi di colpa a chiedersi perché quel giorno piuttosto che rilasciare interviste in cui si dichiarava manifestante anti-expo e pro-bordello non fosse a casa a giocare a GTA. Giusto per fare un esempio a caso.
A tal proposito, l'altro giorno riflettevo sull'analogia tra le fasi della vita umana e quelle di internet. Ché se ci pensate, saranno passati una quindicina d'anni da quando internet ha iniziato a entrare nelle italiche magioni. Ergo siamo in piena crisi adolescenziale.
Siamo passati dalle scritte in caps lock che accompagnavano immagini glitterate accludendo richieste di affetto e comprensione, dalla fase in cui eravamo più "ingenui" e "sinceri" a questo squallido teatrino a chi è più figo, a chi si costruisce meglio l'identità online. Le foto giuste, le canzoni giuste, i commenti sarcastici da ragazzino dei film americani che subito dopo il trasloco esce dall'auto con le cuffiette nelle orecchie, guarda la nuova casa con disprezzo e dice "wow, siamo in mezzo al nulla. Fico. Grande." e al papà/mamma che cercano di convincerlo con un bonario "vedrai che farai tanti nuovi amici a scuola" rispondono alzando il volume a palla e chiudendosi nella loro nuova stanza. Che al 90% è infestata dagli spettri, ma questa è un'altra storia.


Detto questo, dovrei fare il solito resoconto annuale del 26 maggio che mi sgomma tantissimo fare ma farò per coerenza è perché "è la tradizione"...

1. Che sto facendo della mia vita?
 NON LO SO

2. Sono felice?
Non ho tempo per esserlo

3. Sono sentimentalmente impegnata?



Non ho intenzione di dilungarmi oltre su this cazzata.

domenica 10 maggio 2015

Post pesantone, tantoppèr


Devo ricordarmi di non guardare mai più film horror e soprattutto di evitare le doppiette. Ieri ho visto The Conjuring, oggi Annabelle e ora sono avvolta in una crisalide di coperte decisamente troppo calde per una notte di (quasi) metà maggio. 

Non ho sonno e non posso tirar fuori la testa da qua perché so che se lo farò vedrò la faccia orribile di qualche strega/demone/bambola posseduta da Belzebù che mi sorriderà con gli occhi sbarrati e l'aria famelica. Quindi preferisco morire soffocata piuttosto che rischiare di essere uccisa/sbranata/addotta. 

Detto questo, dal momento che dormire non è roba di mo -come si dice qui a Bari- ho deciso di scrivere due cose a caso qua sopra, utilizzando solo i miei pollici opponibili (bel modo di screditare l'unica cosa che mi distingue dal resto della fauna, frutto di millenni di evoluzione) e lo schermo del mio ormai datato iPhone, dal momento che utilizzare il pc è fuori discussione, sempre per la storia dei demoni di prima. 
E niente, riflettevo su un po' di cose e come sempre pensavo alla banalità del tutto, all'inevitabilità del male e al fatto che se avessi la gobba chiamerei questo blog Zibaldone e scriverei eleganti versi colmi di frustrazione e di senso d'inadeguatezza mascherato da altezzosità.
Scrivere così è DAVVERO scomodo e in più l'app di blogger fa schifo e non mi fa scendere in automatico la pagina mentre scrivo. 
Volevo fare le mie tanto procrastinate considerazioni sulla vita e sull'amore, dal momento che ho cambiato idea su alcune cose e volevo quindi ricordare per sempre questo momento, in modo da andare a rileggermelo in un futuro -spero molto anteriore- e desiderare di tornare indietro nel tempo per prendere a testate il muro e scriverci col mio stesso sangue che sono la solita rincoglionita e che ben presto rimpiangerò i bei giorni felici in cui erigevo grandi muraglie emotive che viste dalla Luna formavano l'immagine di un dito medio che percorre l'himalaya. 
Ma ancora quel momento non è arrivato e ho fatto il fioretto di godermi questa cosa senza farmi troppe domande e paranoie, sebbene ciò vada totalmente contro la mia natura di pesantona.

Ho preso atto, in questi mesi, del fatto che non ho mai - e dico mai- avuto il controllo delle mie emozioni, sebbene ci sia stato un periodo in cui ero straconvinta di averne. In realtà, non avevo emozioni da controllare. C'ero io soltanto, in qualità di vacuo involucro nel quale qualcosa si era rotto e giuro che quando è successo, quando quella cosa -qualunque cosa fosse- è andata in frantumi, io l'ho sentita. Ho sentito un tonfo sordo e la voglia di urlare, di vomitare me stessa e quello che ero, di sdraiarmi su un foglio bianco e agitarmi per (de)scrivere quel vuoto che sentivo. Riempire un foglio bianco con del vuoto, senza dare forma alle parole, perché le parole non c'erano più, erano morte con me e con tutto quello che ero convinta di aver avuto. E a un tratto non sentivo più rabbia, né umiliazione, né tristezza. Ero impotente, avevo perso una battaglia impari col tempo e con lo spazio, e proprio tempo e spazio mi avrebbero aiutata a risalire. O almeno così dicevano.
Ci vuole tempo.
Un giorno capirai.
Un giorno ci riderai su.
È solo questione di tempo.
E per un periodo vergognosamente lungo, il tempo l'ho scandito coi singhiozzi isterici, poi con le lacrime silenziose, e infine coi battiti del mio cuore che risuonavano nel vuoto.
Sentivo il peso di ogni minuto, avevo il controllo totale del mio tempo. Sentivo l'avvicendarsi delle stagioni, percepivo ogni cambiamento - anche minimo - di temperatura, colori, odori, rumori e tutte le volte m'illudevo di cambiare un po' anch'io, di essere più forte. Mi ripetevo che ero diversa, che la prossima volta tutto sarebbe stato a mio vantaggio, che il fato avrebbe giocato dalla mia parte, che avrei esercitato il controllo sulle emozioni, mie e degli altri.
Sì, perché i rapporti sono illusori.
Non c'è amicizia, non c'è amore, non c'è famiglia.
Ci sono persone che ti sono utili, persone che non lo sono.
E tu puoi essere o non essere utile, essere o non essere e basta.
Te lo dicono tutti che sei bella, che ti vorranno bene per sempre e che comunque vada non ti dimenticheranno mai, e poi appena l'equilibrio si rompe si fa a gara a chi seppellisce prima l'altro nell'oblio, a chi grida più forte che si sta divertendo di più, che guadagna di più, che vive di più, che scopa di più.
E io ancora mi chiedo come sia possibile crederci sul serio alle promesse fatte in riva al mare, al chiaro di luna, o seduti sui marciapiedi. È sempre stato così, sempre sarà così.
Non ho il controllo di niente perché non ho niente da controllare.
Non c'è niente da controllare.

🌸🌸🌸🌸🌸🌸🌸🌸🌸🌸🌸🌸

Ps: giusto per stemperare questo alone di pesantezza, volevo comunicare ai miei lettori che l'altro giorno ho avuto la possibilità di far revocare la laurea a un mio ex ma non l'ho fatto. Ciò prova che sono magnanima.

Pps: Mimì, il mio cane, è immobile al centro della stanza e fissa un punto in cui apparentemente non c'è nulla.
Ciò prova che casa mia è infestata.

domenica 3 maggio 2015

Fissa.

(la fissa è per l'agente speciale Dale Cooper, non per l'urinare all'aria aperta)



giovedì 30 aprile 2015

Musica concettuale e no. Proprio no.

Ieri sera, in un locale, si è esibita una band.
"Esibita"
"BAND"
Dei tizi hanno suonato.
Dei tizi hanno fatto cose rumorose.

Rumorose e fastidiose, aggiungo.

E niente, volevo darmi fuoco ai timpani.
Perché ci sono sempre meno band in grado di suonare veramente e ci stiamo riempiendo di gente convinta di fare roba d'avanguardia solo perché fanno movimenti che sembrano studiatissimi producendo suoni del tutto casuali?
"Musica concettuale" che esprime il concetto di cosa, esattamente? Del fatto che ti sei comprato una tromba ma non la sai usare e vuoi dare un senso al tuo investimento?
Un tizio che fa roteare su se stesso il piatto di una batteria facendoci strisciare un drumstick a mimare il grammofono del suo disagio, è da considerarsi un artista? Roba casuale e inascoltabile fatta di rumori irritanti, senza tempo, metrica o un minimo di tecnica è arte?

sabato 11 aprile 2015

Di assenze, presenze e demenze

Sono mesi che non trovo il tempo di poggiare le chiappette su una qualsiasi superficie con un qualsiasi grado di solidità per vomitare, in un modo o nell'altro il fastello di roba che ho dentro. Creatività, amica mia, scusami se ti tengo bloccata in questo corpo mortale dalle dimensioni peraltro ridotte.
Non disegno, non dipingo, non mi trucco da personaggio dei fumetti, leggo poco e quel che leggo non lo leggo per piacere ma per dannato, dannatissimo dovere. Ho mille canzoni in testa e la chitarra perennemente nell'armadio. A stento mi ricordo come si suona.
Tutto per colpa mia, stavolta. Colpa mia e della mia scelta sbagliata che mi perseguita da cinque anni e che si riconferma sbagliata ogni volta che preparo un esame. Cinque anni al cesso, letteralmente. Ho bisogno di scrivere qualcosa che non sia la biografia di questo o quell'autore, che non sia un movimento letterario, una corrente di pensiero che non sia la corrente del fiume in piena che ho nel mio, di pensiero.
Sono melodrammatica, lo so.
Tendo alla tragedia e alla spettacolarizzazione, all'esagerazione e alla teatralità.
Ma sono anche questo e l'atarassia la riservo ai momenti in cui devo prendere una decisione importante.
Furba. Aggiungete "furba" alla lista di aggettivi che mi si addicono, con un piccolo asterisco rosso che riporti alla nota "sarcasmo".

Ah, e nota per chi in questo momento gongola leggendo queste righe convinto di aver ricevuto la sua vendetta, che il karma abbia punito la piccola stronza che sono e che rimpiango i bei momenti in cui rotolavamo sui prati felici della vita: non sono triste. Sono felice, probabilmente come non lo ero da tempo. Ma mi rendo conto che una mente semplice non riesca a capire cosa significhi avere dentro cose che non puoi esprimere per evitare che ti si prosciughi il corpo da ogni minima goccia di energia vitale. Quindi i vostri sorrisini vittoriosi davanti allo schermo, risparmiateveli per quando vedete video di ciccione che fanno ginnastica (e che comunque sono persone migliori di voi, cessi).

domenica 22 marzo 2015

Una domenica sera di martedì notte

Ed è effettivamente domenica sera.
Devo specificare che, esattamente come la maggior parte del genere umano allegramente fa da semper, odio la domenica?
Nonostante questa sia stata decisamente piacevole - dal momento che sono tornata a casa tipo nemmeno tre ore fa ed ero uscita il pomeriggio prima - il ritorno alla magione è sempre l'equivalente emotivo di un ice bucket challenge fatto all'infame mentre fai la pennica pomeridiana. Un'infamata. Una bastardata. Una cosa risparmiabilissima.
Ma a quanto pare è nella natura di quel simpatico bipede glabro che è l'essere umano avere un'alcova dove riposare le stanche ali dopo aver svolazzato di palo in frasca e, nonostante alla tenera età di sei anni esternai a un preoccupato maestro di religione la mia volontà di voler diventare una barbona da grande, ahimè il mio sogno non si è ancora realizzato. 
E niente, mi sto sfondando le trombe di eustachio (che ho sempre immaginato come una specie di rametto con i capelli verdi e ricci che vive in una tromba gigante) uccidendomi di Trash Metal per contrastare quell'inetto di mio padre coi suoi tentativi di aggiustare una sedia che ha sopportato trent'anni di culi oversize e finalmente ha deciso di tirare le cuoia. Lui lo chiama bricolage, io accanimento terapeutico.
A dirla tutta lo chiamo anche "ti sto facendo un dispetto perché ho visto che stai cercando di studiare e quindi devo fare un non necessario casino della madonna per distrarti e darti fastidio perché sono un uomo maturo nonché un padre responsabile e amorevole", ma per fortuna ho Spotify coi Megadeth a palla. Rimedierò un acufene, nella migliore delle ipotesi, ma vuoi mettere la soddisfazione di continuare a studiare like a boss?

Ah, tramando ai posteri che sto contemporaneamente facendo un headbanging non indifferente, mentre studio Verga e i Malavoglia per l'ennesima volta nella mia breve vita. Ho ancora lo smalto che avevo a 17 anni! La vecchia Noemi si conserva bella e giovane e scattante!




venerdì 6 marzo 2015

Dipingimi distorto come un angelo a Courmaaaayeur che caaaadeeeeur

È la pausa più lunga che mi prendo da quando ho aperto questo blog.
Chiedo venia al mio unico lettore, ma sto affrontando un periodo di crisi creativa non indifferente. Nella mia testa ci sono tante cose, il mio corpo non regge lo stress e tutti i bei propositi e le idee s'infrangono sugli scogli della nullafacenza.
La cosa terribile è che credo di aver usato una metafora simile, qualche post fa.
Sì perché ho delle idee ma le trovo perennemente banali.
Tutto nasce nel momento in cui faccio rocamboleschi salti all'indietro nel tortuoso percorso della mia vita e una terribile epifania mi attraversa il cranio come un proiettile vagante: la bimba speciale e intelligente che credevo di essere in realtà è poco più che una di quelle sfigate che passa l'esistenza a scrivere su tumblr quanto si senta a disagio per questo o per quel motivo, rebloggando unicorni e immagini kawaii di tanto in tanto per non sembrare eccessivamente depressa.
Ed è quindi in questo circolo vizioso che sto volteggiando da un paio di mesi.

Detto questo, ieri sono stata al concerto dei Verdena.
Molto bello, molta gente, molte mazzate, molto pogo, molto alcool, molto sonno.