domenica 25 dicembre 2016

Il regalo che non avrai

È da stamattina che ci penso. 
Ho aperto l'armadio, preso un pezzo di carta regalo tra i mille ritagli che mia madre conserva meticolosamente ogni anno. I resti scartati di compleanni, natali, anniversari. Ho preso un pezzo di carta marrone, con le renne. Faceva parte del foglio di carta regalo che comprai qualche natale fa, per te.
Lo scelsi con cura, creai il pacchetto e, il resto del foglio, lo piegai e lo riposi nell'armadio, assieme agli altri ritagli. 
Oggi ho usato la stessa carta, per il regalo che non avrai mai.

martedì 29 novembre 2016

Sundays

Le domeniche più belle erano quelle in cui la luce del sole entrava di soppiatto dalla finestrella in alto, quella coi vetri rigati che non chiudevamo mai.

Aprivo gli occhi, mi guardavo intorno ed era tutto sospeso: le pareti bianche, i poster mezzi scoloriti (Radiohead, Dire Straits, Blues Brothers, e i Pink Floyd sulla porta), i sottobicchieri che procacciavo per te con un'assiduità che prima di allora avevo riservato solo alle figurine dei Pokémon, quando ero piccola.

I miei occhi vagavano per la stanza, avidi di ogni dettaglio, mossi dal timore di dimenticare come s'incrociavano i tubi sul soffitto, o quali fossero i punti in cui il pavimento in linoleum era lacerato.

Alla fine, quando ero ormai sazia di dettagli, mi voltavo a guardarti. Le ciglia chiuse, l'espressione distesa, i capelli arruffati. Ti osservavo dormire e tu percepivi il mio sguardo. Sorridevi, con gli occhi ancora nascosti dalle palpebre. Con le mani mi cercavi e mi trovavi, mi stringevi e sorridevi ancora, di più.

Mi stringevo a te, col mio orecchio sul tuo cuore. E pensavo che quel battito era solo per me, e che era splendido e terribile non poter abbracciare un suono. Non esiste un modo per portare con me quel battito. L'ho lasciato ai miei ricordi, alla mia testa che ne modifica ritmo e intensità a suo piacimento, come se non fosse stato importante, come se una cosa valesse l'altra.

Ci alzavamo, ci rivestivamo intervallando ogni gesto a un bacio, o un abbraccio, o una qualsiasi cosa che ci tenesse sospesi ancora per un po'. Non c'era fretta, non c'erano cose da fare. Sì, l'università, lo studio, la laurea, ma alla fine chissenefrega. C'eri tu, c'ero io. C'era la tua chitarra, la vecchia PlayStation e quel gioco che non abbiamo finito mai. C'era la musica che veniva dal piano di sopra. C'erano le bottiglie vuote, i vestiti sul pavimento, i posacenere, gli oggetti dimenticati. E noi che rendevamo romantico il disordine senza alcuno sforzo. Bastavano i nostri corpi a rendere splendide quelle lenzuola logore e strappate.

Alle volte, uscivi dalla stanza mentre io ancora combattevo con la voglia di rivestirmi. Tornavi e avevi in mano due tazzine di caffè.
Uscivamo, il profumo dei gelsomini mi mandava in estasi. Lo sai che è il mio profumo preferito, quello dei gelsomini? Lo sai, te lo dicevo ogni volta.
Percorrevamo il viale mano nella mano, con me che trotterellavo felice e guardavo il cielo e poi gli alberi, i gatti, le vecchine appollaiate sui balconi. E guardavo te, e ogni tanto ti sorprendevo a guardarmi e a sorridere.

Percorrevamo in auto la strada che separava le nostre case e io guardavo il mare e ti dicevo che, magari, la domenica successiva avremmo potuto fare una passeggiata là. Mi dicevi che sì, andava bene, e di domeniche ne sono passate davvero tante, ma quella passeggiata non l'abbiamo fatta mai.
Mi prendevi la mano ogni volta che cambiavi marcia. Mi baciavi ad ogni semaforo.

Mi lasciavi sotto casa e mi baciavi, e io baciavo te e ridendo ci chiedevamo se avremmo mai smesso di baciarci, se saresti mai riuscito a riaccompagnarmi a casa e a lasciarmi andare senza baciarmi mille volte, prima.


Non ci sei riuscito mai.

lunedì 24 ottobre 2016

Sailor Muu

Il mio ideale di serata fichissima oscilla tra varie tipologie di serate fichissime.

Oggi, sono io in un locale con le pareti rosse, i mattoni a vista, bottiglie di birra - tante bottiglie di birra - impilate sugli scaffali di legno, una playlist che mi ha regalato Jimi Hendrix e i Led Zeppelin in sottofondo e persone che condividono il tavolo con me, senza la pretesa di intraprendere per forza una conversazione.

Amo le persone che capiscono e rispettano il mio bisogno di starmene per i fatti miei.

Non scrivevo qua sopra da mesi, per ovvie e comprensibili ragioni.

Nel frattempo, ho deciso che risolverò i prossimi problemi condominiali con del tritolo nel sottoscala.

L'agenda sul tavolo mi ricorda che ho delle responsabilità, ma anche che ci sono delle pagine bianche che vanno riempite con cose a caso. Tipo una mucca vestita da Sailor Moon. Sailor Muu.


domenica 21 agosto 2016

17

E' l'attimo prima della tragedia, quello che aneliamo.
Sono giorni che ho in testa questa frase e con tutta me stessa ho provato a vietarmi di scrivere. Perché è personale, perché non ne voglio parlare. Faccio come i cavalli col paraocchi, quando il cocchiere li tira per la briglia e loro puntano le zampe anteriori perché non vogliono camminare. Ecco cosa ho fatto e sto facendo.
Il momento in cui sono entrata nella stanza rossa del pronto soccorso trovando mia madre in lacrime mentre mi dice "è morto", credo mi perseguiterà a vita. Fino al momento prima, non sapevo, era tutto ok.
Papà era là dentro, c'erano medici e infermieri a prendersi cura di lui e io ero nel corridoio del pronto soccorso a scherzare con mio fratello. Noi eravamo là e papà lottava per la sua vita, mentre i medici tentavano disperatamente di salvarlo.
Una parte di me ancora spera di scoprire alla prossima citofonata, che è tutto uno scherzo di pessimo gusto. E' strano e doloroso sapere che non potrò più vedere mio padre, sentire la sua voce, litigarci, prenderlo in giro. Ogni piccolo obbligo casalingo che gli spettava e che ora io, mamma e mio fratello ci spartiamo è uno spillo nel cuore che ci ricorda quello che è successo.
Sedici giorni fa era dove sono io ora.
E vorrei tanto credere in qualcosa, per avere le risposte a quelle domande che una risposta univoca non ce l'hanno.
Che fine farò, quando finirò?

sabato 28 maggio 2016

E' notte, ed è il momento giusto per un post ispirato e disincantato

E' una di quelle notti in cui le dita corrono sulla tastiera, veloci e mosse da qualcosa di indefinito dal quale nascono mille pensieri, che nella tua testa sono meravigliosi e coerenti ma che una volta che li rileggi ti sembrano banali e anche piuttosto sgrammaticati.
E' una di quelle notti in cui dovresti solo buttarti sul letto e dormire, e invece ti ritrovi ad infierire ancora sulla tua schiena stanca, curvandoti sul pc per buttare giù roba a casaccio che chissà se qualcuno leggerà mai.

Sei anni e passa fa, ho istituito il resoconto annuale, una lista di tre domande idiote da pormi ogni anno, il 26 maggio. Ad oggi, non ricordo esattamente per quale motivo scelsi proprio quella data, sta di fatto che per la prima volta sento che davvero qualcosa è cambiato. Saranno i venticinque anni che incombono, le responsabilità, l'angoscia dell'invecchiare, del vedere ragazzini e ragazzine di quattordici anni e pensare che dieci anni fa ero così anch'io. E, cazzo, dieci anni sono un'infinità. Quasi metà della mia vita.
E poi c'è tutto sto casino del trovare una strada, un lavoro, un compagno, una famiglia, dei rapporti umani stabili. E più t'impegni in una cosa, meno tempo hai da dedicare alle altre e allora devi scegliere se essere solo e realizzato, o avere tanti amici e poco tempo da dedicarti.

Perché il culo te lo devi fare, in ogni caso. Che sia per altra gente o per te stesso.

E non puoi fartelo due volte, sarebbe inumano.

E niente, due anni fa (o giù di lì) lessi un articolo che mi cambiò la vita.

Non sei quello che "sei" dentro. Non sei il tuo mondo interiore, non sei tue le buone intenzioni. Per le persone, sei quello che puoi dar loro. Sei quello che serve, che torna utile.
Ed è così, non si scampa da questa condanna.
La si subisce e la si scaglia addosso agli altri, senza pietà. Siamo tutti così, è pure inutile stare ad inveire contro le persone false, stare a farsi mille seghe mentali sul quanto ci tenga o ci abbia tenuto questa o quella persona a noi.
Stiamo simpatici, siamo di compagnia, arrapiamo, serviamo e basta.

lunedì 16 maggio 2016

L'ennesima lettera in favore della mediocrità

Noi che abbiamo 20/21/22/23/24/25 anni e non abbiamo capito ancora nulla della vita.
Noi che sentiamo la pressione della competizione coi nostri coetanei che qualcosa di buono l'hanno fatta.
Noi disordinati, caotici, pensierosi, romantici, disillusi e tutta questa roba che fa tanto belli e dannati.
Di lettere che cominciano così ne spuntano un paio al mese. Plurale maiestatis, foto di ragazza con cuffiette nelle orecchie che guarda malinconica fuori dal finestrino di un treno e compatimento collettivo. Diventano virali, ci rincuorano per i dieci/quindici minuti successivi alla loro lettura e poi spariscono nell'etere. Lettere fatte di frasi brevi che significano tutto e niente, lettere fatte di elenchi e di ripetizioni a inizio frase perché abbiamo la convinzione che quello sia il modo più efficace di comunicare frasi e pensieri di una certa portata.*
*(e sì, potrei star usando lo stesso stile che sto criticando volutamente)
Lettere che esaltano l'indecisione, la vita vissuta in perenne attesa di qualcosa o qualcuno. Lettere che esaltano la mediocrità, insieme ad articoli che erigono qualsiasi difetto o stranezza a sintomo di indiscutibile intelligenza.
single sono più intelligenti.
cicciotti sono più intelligenti.
Chi scorreggia sotto le lenzuola è più intelligente.
solitari sono più intelligenti.
Le donne con le tette piccole sono più intelligenti.
Gli uomini con le tette sono più intelligenti.
Tutti assiomi ricavati da qualche studio in una qualche università della California in cui i ricercatori passano le giornate ad appuntarsi chi, tra panzoni e petomani, risolva più velocemente il cubo di Rubik. Davvero, è così che me lo immagino.
Sembra una di quelle gare in cui alla fine vincono tutti. "Bravo, hai partecipato alla vita, qualcosa di buono sicuramente l'hai fatto! Come dici? Mangi gli spaghetti usando il cucchiaio? Allora sei più intelligente! Qualcuno dia un Nobel a questa persona!".
Stesso discorso per le lettere accorate, tipiche dei blog e dei giornali online che fanno clickbaiting
"A te, ventiequalcosenne che ancora vivi dai tuoi e passi la vita a smanettare sul pc invece di fare qualcosa di buono. Non sei un imbecille pigro e impreparato alla vita, no! Sei speciale! Vieni a leggere mille storie di altri speciali come te! Non sei solo!"
La verità è che siamo degli inetti e che abbiamo bisogno di sentirci dire che non è così, ma stiamo solo aspettando il nostro momento per sbocciare, come se dipendesse da un qualcosa che non siamo noi. Siamo passati dal buttare i nostri pomeriggi davanti alla televisione a guardare i cartoni animati al momento in cui qualcuno ci ha messo un diploma o una laurea in mano e ci ha detto "quella è la vita, vai e fanne il tuo capolavoro". 
Nulla di più spiazzante. Libertà liberticida.
E vai di frasi motivazionali su Facebook, di foto di giovani americani biondissimi si Instagram che passano le giornate a frullarsi complicatissime colazioni ipocaloriche e a comprare vestiti e accessori nuovi. E tu stai a casa a guardare le loro vite, mentre te ne stai in tuta a sgranocchiare snack e aspetti il download dell'ultima puntata di una delle settanta serie tv che segui. E l'unica cosa che aspetti con ansia sono gli infiniti reboot di quella roba anni '90 che hanno forgiato la tua mediocre personalità, salvo criticarli poi sul tuo blog non appena esci dal cinema con parole al vetriolo perché "era meglio l'originale". E non ci rendiamo conto che questo perpetuo ripetersi di film, serie tv, cartoni animati riveduti e corretti altro non è che il nostro modo di sentirci ancora legati a quegli anni, di aggrapparci con tutte le nostre forze alla convinzione che quei momenti di innocenza e spensieratezza non sono ancora finiti.
Ogni tanto, giusto per ingannare te stesso fingendo che stai davvero facendo qualcosa, cerchi lavoro online. Incredibile il numero di parole zeppe di sillabe altisonanti che la gente che scrive annunci usa per dire "cerchiamo operatore call center" o "tizio che vende depuratori porta a porta". Ma loro sono interessati alla tua crescita professionale, eh! Loro hanno a cuore la tua formazione, la tua esperienza, la tua carriera! Duecento euro di fisso e dieci euro a provvigione, il tutto al piccolo prezzo della tua anima. Che quasi quasi guadagni di più restando ad ammuffire sul letto e a cercare foto di gattini carini.
"Ma non è un ufficio come gli altri, è una grande famiglia! Vedi la foto di questo generico ragazzo? Sette mesi fa era come te! Poi, una provvigione alla volta (ottenuta chiedendo ai passanti di donare soldi ai bambini Africani), in sette mesi è diventato il nostro capo! Questo grattacielo è tutto suo! Devi essere carina, di bella presenza! Sorridi sempre, scherza con le persone! E' un lavoro per il quale bisogna essere svegli, comunicativi! Fai anche vedere un paio di foto coi bambini con la pancia gonfia e le mosche sugli occhi, che s'inteneriscono e sganciano prima i soldi!"
(Giuro di non aver inventato una parola di questo discorso. Me lo sono sentita dire sul serio, prima di uscire da quell'ufficio strappando il bigliettino con su scritto l'orario del prossimo incontro.)
No, davvero, come fanno le ragazze di Instagram? Positività e tisane appiattisci-stomaco bastano a salvarci dal tracollo? 
Ed è assurdo il fatto che non trovi risposte a queste domande, dal momento che avendo pancia, cellulite e doppie punte sono "più intelligente" (di chi?) almeno secondo tre-quattro articoli diversi. 

giovedì 21 aprile 2016

Nu latitaaante nun tiene nieeente

Sono mesi che non ho una casa.
Cioè, ne ho troppe.
Tante e nessuna, a dir la verità.
Parte delle mie cose è dai miei, il resto è in una location supersegreta nota solo a pochi e sorvegliata da dragoni sputafuoco.
"Oh, come mi sta bene questo vestito! Starebbe proprio bene con gli stivaletti ner...cazzo, sono nell'altra casa!"
Più o meno è così che vivo da mesi.
E niente, questa cosa a breve mi provocherà un esaurimento nervoso di quelli pazzeschi, ma a quanto pare il mio genio della lampada personale non ha capito molto bene cosa intendessi quando gli ho detto che mi piace viaggiare. Oppure la colpa è del biscottino della fortuna mangiato in un ristorante cinese anni fa, come in Quel Pazzo Venerdì.
E niente, ovunque io sia, sono incompleta.


martedì 16 febbraio 2016

Il mio COMING OUT (astenersi persone dalla mentalità chiusa, PLS)

E’ difficile per me buttare giù queste righe. In una società in cui si predica la libertà di pensiero “fino a un certo punto”, finché non intacca le tradizioni e i costumi popolari, essere se stessi e andare in qualche modo contro corrente è un lusso che solo i più coraggiosi possono concedersi. E io di coraggio, non ne ho mai avuto tantissimo. Ammetto di aver sempre temuto il giudizio altrui, l’effetto “folla inferocita” accecata da un odio che accomuna dieci, cento, mille individui riuniti contro il nemico comune. Il diverso, l’emarginato.
Però, ho deciso, in questo clima di dibattito sull’argomento in cui ci si chiede se sia giusto o sbagliato, se la mia “scelta” sia eticamente corretta o addirittura nociva, se possa infangare e distruggere una routine consolidata da anni di “è sempre stato così, tu e quelli come te non potete pretendere di sovvertire le immutabili leggi dell’universo”; ho deciso di parlare.

Nonostante io tenda ad evitare l’argomento in pubblico, sempre più spesso mi vengono poste domande a riguardo. Inizialmente le glissavo, sorridevo timidamente e minimizzavo il tutto, dicendo che magari è solo una fase e voglio solo provare una cosa nuova ma che prima o poi tornerò “normale”.

Cosa è normale, poi?

In molti hanno capito. Mi dicono che si vede da come mi comporto quando sono con gli altri, durante una pizzata tra amici o un’uscita al pub. 
Si vede che sei diversa.

E sì, per alcuni versi, lo sono. In questi anni, dal momento in cui ho preso consapevolezza della cosa, ho conosciuto tanta gente come me. Mi fa sentire meno sola. Gente che come me ha paura di esporsi, di dire la propria. Gente che viene continuamente attaccata e derisa. Perché quelli come noi vengono perculati da chiunque. C’è chi ci dice che siamo estremisti (e sì, ammetto che alcuni di noi, in alcune manifestazioni, possono sembrare esagerati. Ma come dar torto a gente che fa parte di una comunità continuamente vessata e che vuole mandare un messaggio forte? Come fai a contenere la rabbia che ti ribolle nelle vene assieme al sangue, quando provi a urlare per quelli le cui grida non possono essere ascoltate?), c’è chi non prende sul serio la nostra causa e ci sbatte in faccia il suo amore per “altro”, come se facendolo ci recassero un danno o ci facessero un dispetto.
A ognuno il suo, dico io. Ognuno faccia quel cavolo che vuole senza ostacolare gli altri, ma che tutto sia fatto in maniera consapevole. E’ inutile pararsi gli occhi dietro cinismo esasperato, dietro le usanze, le tradizioni o come diavolo le volete chiamare voi.

I miei amici più cari e la mia famiglia sanno questa cosa, questo fardello che mi porto appresso già da un po’. Ammetto che non è stato facile, all’inizio.
Le prime "avvisaglie" le diedi verso i quattordici, quindici anni. Ricordo che mia madre non prese affatto bene la cosa. Finii con l’ammettere che era solo una fase adolescenziale e che la normalità era altro. Eppure questa normalità non la sentivo mia e quel pensiero ritornava, ciclicamente, come una canzone della quale non riesci a sbarazzarti. E sentivo che c’era qualcosa di sbagliato in quello che facevo, qualcosa che mi sforzavo di fare perché agli altri andavo bene così, perché diversamente sarebbe stato ridicolo.

Ma oggi, senza un apparente motivo se non un grande atto di coraggio, voglio urlare al mondo la mia diversità, senza paura di essere giudicata. E voglio farlo non solo per me, ma anche per tutti quelli che come me vengono presi in giro, isolati, vessati e provocati continuamente da gente chiusa, ignorante, bigotta.



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SONO VEGANA.

Ecco, l’ho detto. Linciatemi.