venerdì 16 ottobre 2020

Caro Amore mio

 Caro Amore mio, 

mi manca cercarti tra le foto, tra i post, tra le parole di una canzone indie che interpreterò a modo mio, forzandone il senso per darne uno a quello che ho nel cuore.

Mi manca leggerti nei libri e guardarti nei film, mi manca contare i giorni che mi separano da te, mi manca sentirmi sicura tra le tue braccia.

Caro Amore mio,

hai avuto tante forme, sempre diverse, alcune meravigliose, alcune terribili. 

Sei stato il bambino secchione del primo banco alle elementari, quello che mi regalò una scatolina bianca piena di regalini e una poesia scritta in penna blu: tra le rose rosse tu sei la più bella.

Sei stato il ragazzino scapestrato coi capelli rossi alle medie, quello col quale ridevo e per il quale ero l'amica più cara, quello che diceva che ero figa perché guardavo i Simpson e non le cose da femmine.

Sei stato il ragazzo del campeggio, che aspettavo arrivasse l'estate per tutto l'anno per vederlo. Quello per il quale cambiai stile e gusti musicali, quello per il quale imparai a suonare la chitarra, quello che mi spezzava il cuore ogni volta che invitava a ballare qualcuna che non ero io.

Sei stato il mio primo bacio, sotto il portone di casa mia.

Sei stato il mio professore di filosofia che mi ha fatto amare il lunedì mattina.

Sei stato il compagno di università col quale preparai quell'esame su Orfeo ed Euridice, quello che partì per Parigi lasciandomi a piangere nella macchina di un'amica, inconsolabile.

Sei stato la prima volta che ho fatto l'amore, e l'ennesima che sei andato troppo lontano perché potessi raggiungerti.

Sei stato quei ragazzi che ho ferito, quelli ai quali non ho dato più che il guscio vuoto lasciato da chi s già  era già preso tutto.

Sei stato le mani che sapevano disegnare e accarezzarmi dolcemente, mentre annusavo gelsomini in fiore. La musica sporca e pura, i colori accesi e spenti insieme. La puzza di fumo e le coperte logore in un seminterrato.

Sei stato forza motrice che mi ha portata lontano, che mi ha resa peggiore nel tentativo di farmi splendere di luce mia.

Sei stato la forza motrice che mi ha ricondotta a casa e mi ha portata nel suo nido, che era un covo di serpi in un rovo di spine che più mi abbracciavi e più mi conficcavi nel petto.

Sei stato l'amico che mi ha sorpresa con un bacio che non aspettavo e che mi è costato tutto.

Sei stato i baci sul mare, i muretti, gli interi di amaro, l'estate in cui ingoiavo le mie lacrime e la tua saliva.

Sei stato il vino rosso bevuto in bicchieri di carta davanti al castello, gli abbracci di un cuore ferito che non mi è appartenuto mai per davvero.

Ora sei casa, famiglia, eppure mi manchi.

Mi manca sentirmi al sicuro.

Quando male mi hai fatto, caro Amore mio.

mercoledì 25 marzo 2020

ennesimo post retorico sul valore del tempo e l'importanza delle cose che capisci solo dopo che le perdi blabla

Facciamo finta che
'sto covid-19 ci ammazza tutti, no? Cioè, nel senso che proprio ci estinguiamo perché non siamo resistenti a questo nuovo patogeno, i guariti lo riprendono e i morti risorgono in forma di zombie e infettano i sani. Ha pure il nome figo, ti dà proprio di operazione militare, di cosa parascientifica, di cosa che fa paura perché ha 'sta nomenclatura asettica, pensa se si fosse chiamato tipo boh Giancarlo, o se gli avessero dato un nome carino tipo morbillo e orecchioni che sono malattie orribili ma hanno un nome che sembra inoffensivo e invece no, COVID-19.

Che poi a ben vedere è anche probabile che gran parte dell'ansia che questo nome mi provoca è dovuta alla presenza del numero, dato che c'ho questa specie di riflesso pavloviano per cui i numeri mi mettono ansia perché li associo a quella gran mignotta della maestra di matematica delle elementari che la matematica me l'ha fatta odiare e poi ho smesso di capirla da quando l'hanno mischiata con le lettere, quindi COME posso non provare angoscia a leggere COVID-19? Lettere e numeri insieme, una cosa che so per assioma che non capirò, solo che qui non ho il compagnetto-secchia al quale chiedere di copiare i compiti, perché manco la peggio secchia ci capisce nulla di 'sta roba e allora ci guardiamo, io sul mio banco e lui sul suo, sbarriamo gli occhi e ci chiediamo se sia meglio provare a risolvere l'esercizio o lasciare in bianco.
Cosa che non si è mai capita perché ogni professore c'ha una visione sua su 'sta cosa: uno ti premia perché almeno ci hai provato, l'altro ti premia perché è meglio stare zitti e lasciare agli altri il dubbio che tu sia scemo piuttosto che parlare e rendere la cosa palese e quindi ti ringrazia non penalizzandoti, in questo stallo alla messicana di non azioni che risulta in un 5- che risulta, a sua volta, in uno sguardo colmo di compassione e pena di mamma e papà che scuotono la testa e pensano "eppure, da piccola, sembrava tanto sveglia".

Ma sto divagando: facciamo che moriamo tutti e che l'unica cosa che resta di questo breve periodo di umanità è quello che abbiamo lasciato su internet e sui nostri cloud (che ancora non ho capito come funziona, spero comunque che i miei nudes siano salvi e che li abbia visti solo io e il tizio che mi ha formattato il computer qualche anno fa HEY Sì LO SO DICO A TE SO CHE LI HAI VISTI) e, tra le altre cose, il mio blog.

A voi, alieni, umani del 3000 immuni a ogni pestilenza, robot, progenie di quelli che stavano chiusi nella casa del GF da prima che la pandemia cominciasse e che quindi, verosimilmente, saranno gli unici salvi alla fine di questo.
A voi voglio dire che ho aspettato venti giorni dall'inizio del lockdown per trovare il coraggio di rubare del tempo a un lavoro che detesto per dedicarmi a questo, a scrivere minchiate su un blog che leggono in tre.
Voglio dirvi che mi sembra di commettere il peggiore dei crimini ogni volta che leggo o disegno o guardo un film perché "dovrei" invece lavorare.
Voglio dirvi che per me e per migliaia di persone come me, è impensabile godersi qualcosa (a prescindere dalla pandemia) senza pensare alle conseguenze, che la pressione è talmente tanta che a volte pensare "magari esco per andare a lavorare comunque, mal che vada sto con la febbre qualche giorno" mi sembra ragionevole.
E verosimilmente lo farei, se vivessi da sola.
Invece mi porto il lavoro a casa e guardo i faldoni che si accumulano sul tavolo da pranzo, leggo le mail di gente che vuole sapere "com'è la situazione". De che? Che volete sapere? C'è una cazzo di pandemia, la gente muore e francamente poco me ne frega se la signora del piano di sopra fa sgocciolare i panni sul tuo balcone.
E' terribile la consapevolezza che, nemmeno sotto costrizione, riesco a dedicarmi alle cose che ho amato fare senza sentirmi in colpa. Che a un certo punto non è manco più una roba di piacere, ma un qualcosa da fare per mantenermi sana di mente dopo un mese di domiciliari.

E' atroce pensare che provi più soddisfazione nel chiudere un bilancio condominiale piuttosto che nello scrivere l'ennesimo post retorico sul valore del tempo e l'importanza delle cose che capisci solo dopo che le perdi blabla.
Disegnare? Che perdita di tempo.
Leggere? Pff, che vuoi che dica di interessante quel libro?
Vuoi mettere la soddisfazione di inserire in una tabella tutte le spese condominiali? Quello sì che è bello! Quello sì che verrà ricordato! Quello sì che mi renderà una persona felice e realizzata.

Siamo malati, e non di covid-19.



martedì 5 febbraio 2019

pt.7






Le domeniche più belle erano quelle in cui la luce del sole entrava di soppiatto
dalla finestrella in alto, quella coi vetri rigati che non chiudevamo mai.
Aprivo gli occhi, mi guardavo intorno ed era tutto sospeso: le pareti bianche,
 i poster mezzi scoloriti a coprire le macchie di umidità,
i sottobicchieri che procacciavo per te nei pub con un'assiduità
che prima di allora avevo riservato solo alle figurine dei Pokémon, quando ero piccola.
I miei occhi vagavano per la stanza, avidi di ogni dettaglio,
mossi dal timore di dimenticare come s'incrociavano i tubi sul soffitto,
o quali fossero i punti in cui il pavimento in linoleum era lacerato.
Alla fine, quando ero ormai sazia di dettagli, mi voltavo a guardarti.
 Le ciglia chiuse, le palpebre mosse dai sogni che mi avresti raccontato da sveglio.

Ti osservavo dormire e tu percepivi il mio sguardo.
Sorridevi, con gli occhi ancora chiusi.
Con le mani mi cercavi e mi trovavi, mi stringevi e sorridevi ancora, di più.

Mi stringevo a te, col mio orecchio sul tuo cuore.
E pensavo che quel battito era solo per me,
e che era splendido e terribile non poter abbracciare un suono.
L'ho lasciato ai miei ricordi, alla mia testa
che ne modifica ritmo e intensità a suo piacimento,
come se non fosse stato importante, come se una cosa valesse l'altra.

Ci alzavamo, ci rivestivamo intervallando ogni gesto a un bacio,
o un abbraccio, o una qualsiasi cosa che ci tenesse sospesi ancora per un po'.
Non c'era fretta, non c'erano cose da fare.
Sì, l'università, lo studio, la laurea; ma alla fine chissenefrega.
C'eri tu, c'ero io. C'era la tua chitarra, la vecchia PlayStation
 e quel gioco che non abbiamo finito mai.
C'era la musica che veniva dal piano di sopra.
C'erano le bottiglie vuote, i vestiti sul pavimento,
i posacenere, gli oggetti dimenticati.
E noi che rendevamo romantico il disordine senza alcuno sforzo.
Alle volte, uscivi dalla stanza mentre io ancora combattevo con la voglia di rivestirmi.
Tornavi e avevi in mano due tazzine di caffè.

Uscivamo, il profumo dei gelsomini mi mandava in estasi.
Lo sai che è il mio profumo preferito, quello dei gelsomini?
Lo sai, te lo dicevo ogni volta.
Percorrevamo il viale mano nella mano e io trotterellavo felice
e guardavo il cielo e poi gli alberi, i gatti,
le vecchie affaccendate sui loro balconi.
E guardavo te, e ogni tanto ti sorprendevo a guardarmi e a sorridere.

Percorrevamo in auto la strada che separava le nostre case
e io guardavo il mare e ti dicevo
 che, magari, la domenica successiva avremmo potuto fare una passeggiata là.
Mi dicevi che sì, andava bene, e di domeniche ne sono passate tante,
ma quella passeggiata non l'abbiamo fatta mai.
Mi prendevi la mano ogni volta che cambiavi marcia. Mi baciavi ad ogni semaforo.
Mi lasciavi sotto casa e mi baciavi, e io baciavo te
e ridendo ci chiedevamo se avremmo mai smesso di baciarci,
se saresti mai riuscito a riaccompagnarmi a casa
e a lasciarmi andare senza baciarmi mille volte, prima.

Non ci sei riuscito mai.


pt.6

Noi, che abbiamo venti/ventuno/ventidue/ventitrè/ventiquattro/venticinque anni e della vita non abbiamo ancora capito nulla.

Noi che sentiamo la pressione della competizione coi nostri coetanei che qualcosa di buono l'hanno fatta. 

Noi disordinati, caotici, pensierosi, romantici, disillusi e tutta questa roba che fa tanto belli e dannati.

Di lettere che cominciano così ne spuntano un paio al mese:
plurale maiestatis, foto di ragazza con cuffiette nelle orecchie che guarda malinconica fuori dal finestrino di un treno e compatimento collettivo. Diventano virali, ci rinuorano per i dieci/quindici minuti successivi alla loro lettura e poi spariscono nell'etere. Lettere fatte di frasi brevi che significano tutto e niente, lettere fatte di elenchi e ripetizioni a inizio frase perché abbiamo la convinzione che quello sia il modo più efficace di far passare concetti e pensieri di una certa portata.*

*(e sì, potrei star usando lo stesso stile che sto criticando - volutamente)

Lettere che esaltano l'indecisione, la vita vissuta in perenne attesa di qualcosa o qualcuno.
Lettere che esaltano la mediocrità, insieme ad articoli che erigono qualsiasi difetto o stranezza a sintomo di indiscutibile intelligenza.

I single sono più intelligenti.
Chi ha le maniglie dell'amore è più intelligente.
Chi scorreggia sotto le lenzuola è più intelligente.
I solitari sono più intelligenti.
Le donne con le tette piccole sono più intelligenti.
Gli uomini con le tette sono più intelligenti.

"La scienza dice". E noi condividiamo.

Tutti assiomi ricavati da un qualche studio in una qualche università della California in cui i ricercatori passano le giornate ad appuntarsi chi, tra panzoni e petomani, risolva più rapidamente il cubo di Rubik.
Davvero, è così che me lo immagino.

Sembra una di quelle gare in cui alla fine vincono tutti. 
"Bravo, hai partecipato alla vita, qualcosa di buono sicuramente l'hai fatto! Come dici? Mangi gli spaghetti usando il cucchiaio? Allora sei più intelligente!"

Stesso discorso per le lettere accorate, tipiche dei blog e dei giornali online che campano di clickbaiting.

"A te, ventiqualcosenne che ancora vivi dai tuoi e passi la vita a smanettare al pc invece di fare qualcosa di buono. Non sei un imbecille pigro e impreparato alla vita, no! Sei speciale! Vieni a leggere mille storie di altri speciali come te! Non sei solo!"

La verità è che siamo degli inetti e che abbiamo bisogno di qualcuno che ci dica che non è così, ma che stiamo solo aspettando il nostro momento per sbocciare, come se dipendesse da un qualcosa che non siamo noi. Siamo passati dal buttare i nostri pomeriggi a guardare i cartoni animati al momento in cui qualcuno ci ha messo un diploma o una laurea in mano e ci ha detto "quella è la vita, vai e fanne il tuo capolavoro".

Nulla di più spiazzante. Libertà liberticida.

E vai di frasi motivazionali su Facebook, di foto di giovani americani biondissimi su Instagram che passano le giornate a frullarsi complicatissime colazioni ipocaloriche e a comprare vestiti e accessori nuovi. E tu stai a casa a guardare le loro vite, mentre te ne stai in tuta a sgranocchiare snack e aspetti il download dell'ultima puntata di una delle settanta serie tv che segui. E l'unica cosa che aspetti con ansia sono gli infiniti reboot di quella roba anni '90 che ha forgiato la tua mediocre personalità, salvo poi criticarli sul tuo blog non appena esci dal cinema con parole al vetriolo perché "era meglio l'originale". E non lo ammettiamo che questo perpetuo ripetersi di film, serie tv, cartoni animati riveduti e corretti altro non è che il nostro modo per sentirci ancora legati a quegli anni, di aggrapparci con tutte le nostre forze alla convinzione che quei momenti di innocenza e spensieratezza non sono ancora finiti.

Ogni tanto, giusto per ingannare te stesso fingendo che stai davvero facendo qualcosa, cerchi lavoro online. Incredibile il numero di parole zeppe di sillabe altisonanti che la gente che scrive annunci usa per dire "cerchiamo operatore call center" o "tizio che vende depuratori porta a porta". Ma loro sono interessati alla tua crescita professionale, eh! Loro hanno a cuore la tua formazione, la tua esperienza, la tua carriera! Duecento euro di fisso e dieci euro a provvigione, il tutto al piccolo prezzo della tua anima. Che quasi quasi guadagni di più restando ad ammuffire sul letto e a cercare foto di gattini carini.

"Ma non è un ufficio come gli altri, è una grande famiglia! Vedi la foto di questo generico ragazzo? Sette mesi fa era come te! Poi, una provvigione alla volta (ottenuta chiedendo ai passanti di donare soldi ai bambini africani), in sette mesi è diventato il nostro capo! Questo grattacielo è tutto suo! Devi essere carina, di bella presenza! Sorridi sempre, scherza con le persone! E' un lavoro per il quale bisogna essere svegli, comunicativi! Fai anche vedere un paio di foto di bambini con la pancia gonfia e con le mosche sugli occhi, che s'inteneriscono e sganciano prima i soldi!"

(Giuro di non aver inventato una parola di questo discorso. Me lo sono sentita dire sul serio, prima di uscire da quell'ufficio strappando il bigliettino con su scritto l'orario del prossimo incontro).

No, davvero, come fanno le ragazze di Instagram? Positività e tisane appiattisci-stomaco bastano a salvarci dal tracollo?

Ed è assurdo il fatto che non trovi risposte a queste domande, dal momento che avendo pancia, cellulite e doppie punte, sono "più intelligente" (di chi?) almeno secondo tre-quattro articoli diversi.

pt. 5

È notte, sono sola e cammino per strada. la città è deserta, complice il freddo e una qualche partita della quale m'interessa molto poco. È una di quelle sere troppo belle per sprecarle a far finta di ascoltare gli altri, troppo silenziosa per fingere di aver messo da parte problemi pensieri e paranoie per il bene di un'uscita tra amici. 
Tanto lo so come va a finire. 
La solita birra, le solite cose, gli amici che parlano e i miei occhi che, uno alla volta, s'incollano a uno degli schermi che trasmettono Mtv. Video e audio rigorosamente fuori sincro.
Che poi, me la chiedo da anni 'sta cosa, perché tenere tre, quattro schermi accesi a trasmettere video musicali e usare tracce audio casuali con Spotify, magari pure la versione Free che ti manda le pubblicità a tradimento? Perché in Tv c'è Beyoncè e alla radio passano gli Smiths?
E mentre cerco una risposta intellettuale a questo annoso quesito, vengo richiamata all'ordine. Questo, nel migliore dei casi. 
Nel peggiore (e ahimè più frequente) mi chiedono se sia tutto ok, se ci sia qualche problema.
No amici, sul serio, è che Beyoncè che muove il culo mentre Morissey canta è disturbante, ma un po' mi fa anche ridere.

Però, insomma, stasera questa cosa qua non mi va. Non ho voglia di dare spiegazioni e, se mi vien voglia di fissare la tv in un locale, o di creare strutture a caso coi gusci dei pistacchi, o anche solo di starmene su una panchina a fissare un albero, voglio poterlo fare senza sentirmi in dovere di dover rassicurare chi mi è accanto perché, davvero, va tutto bene.

Che poi -cammino- sul muro accanto alla porta del locale nel quale avevo scelto di entrare, c'è un disegno. Un uomo mascherato, un delfino, una chitarra, delle note, una sigaretta.
Lo guardo, osservo i tratti duri e spigolosi del suo volto, e da quei tratti riconosco le tue mani. 
Ci ho preso, c'è la tua firma, in basso a destra.
Ed ecco che la serata in solitaria, quella che avevo scelto di passare con l'unica incessante compagnia del mio cervello, è diventata una birra con quello che il tempo passato assieme mi ha lasciato di te.
È come banchettare con un fantasma. O un folletto. O un amico immaginario. Fai tu, ché a me sembra tutto un po' banale.
Sarà che ormai sono grande, ho un lavoro, degli obblighi sociali e delle responsabilità e mi sembra così idiota lasciare che un disegno su una parete mi turbi così tanto, nella sera in cui avevo deciso di stare in armonia col mondo. Che poi, forse, cercare l'armonia attraverso l'isolamento non è una strategia poi così brillante.
Così come non è brillante uccidere l'istinto che ho di chiederti, ancora una volta, come cazzo stai, bevendo un sorso di vino ogni volta che prendo quel cavolo di telefono e inizio a digitare.
Ché, un sorso alla volta, il calice di vino diventa un altro calice di vino. Che poi diventano tre. Che poi diventano me, che mi chiudo nel cesso e mi fisso allo specchio e mai -giuro, mai- mi sono sentita così lontana da me stessa. Ma chi cazzo sei, oh? Che guardi? L'ho sempre avuta quella ruga sul labbro? Cristo, ho venticinque anni, non settanta. Magari vedo male.
Con l'età, succede.
Il trucco sbavato mi manda in bestia, non ho manco mezza salvietta per aggiustarlo. Ora penseranno che mi drogo o, peggio, che ho pianto nel cesso. 
Ma io non piango, non piango, non piango, ti dico.
Questa roba qua è casuale, è colpa del freddo. O di un'allergia. O magari è colpa mia che mi sto stropicciando l'occhio da venti minuti per aggiustarmi il trucco.
Mi sa che è questo.
Su una piastrella, accanto allo specchio, di nuovo la tua firma.
Cristo, c'hai trent'anni e ancora imbratti i cessi dei locali?
Mi appoggio al lavandino. Fisso me, o chiunque sia quella povera stronza che mi fissa dall'altra parte dello specchio. Fisso me/quella e la piastrella col tuo nome.
Frugo in borsa. Magari trovo una penna, così posso scriverti almeno qua, posso scriverti "cretino, che cazzo fai? Scrivi il tuo nome sulle piastrelle dei bagni dei locali?"
Magari ci aggiungo qualcosa che capiamo solo io e te, così capisci che sono io e magari stavolta me lo chiedi tu, come sto.
Però, se ti scrivo che sei un cretino a scrivere su una piastrella, e se per farlo scrivo a mia volta su una piastrella, sono cretina anche io? 
Magari ti faccio un cuoricino, un banale cuoricino.
Non c'è nulla di male, è una cosa che potrebbe disegnarti anche un amico. 
Però, sai, un cuoricino potrebbe essere frainteso e noi ormai quella fase là l'abbiamo passata da un pezzo. Io ho la mia vita, tu la tua.
Non è il caso di essere ambigui, non vorrei lasciarti un messaggio sbagliato, magari si creano equivoci, casini vari e non è il caso.
Facciamo che ti lascio una faccina che sorride. Uno smile. Un banale smile accanto al tuo nome. Semplice, cordiale. Come i sorrisi di cortesia che riservi alla gente che incontri per strada, quella che non hai voglia di fermare e alla quale non hai voglia di chiedere come sta; però sta male dire "ciao" e passare oltre, allora dici "ciao" ma sorridi pure, così lui/lei capisce che non ti sta sulle palle e che magari vai di fretta, e tu ti senti meno in colpa.
Però -e ancora cerco una penna nella borsa- non vorrei, magari, che pensassi che questo smile te l'ha lasciato qualcun'altro. Magari una tizia a caso che ti piace e con la quale non vedi l'ora di attaccare bottone. Quale scusa migliore se non "ehi ciao, hai messo tu uno smile accanto alla mia firma, sulla mattonella nel cesso di tal locale?".
Non che sia gelosa, sia chiaro.
Io ho la mia vita, tu la tua ed è giusto che sia così.
Ma non ho intenzione di agevolarti i flirt. 
Che poi, giro perennemente con penne e pennarelli in borsa ché non si sa mai, ma oggi non ne trovo una a pagarla oro.
Per un folle momento, penso di bucarmi l'indice col canino e di scrivere su quella mattonella col sangue. Però, se è vero che ho in corpo tre calici di vino, che non sono propriamente pochi; è anche vero che non sono abbastanza da indurmi all'automutilazione per l'anima di nulla. 
Anche perché, diciamocelo, per quanto il contenuto possa essere amichevole e cordiale, nessun messaggio scritto col sangue ispira particolare fiducia, né esprime particolare sanità mentale.
Sono qui da non so nemmeno più quanto, ancora alla ricerca di una penna perché devo assolutamente scriverti questa cosa, o disegnartela o ancora non so cosa, non so come, non so perché ma devo.
Trovo una matita rossa, per labbra. Non mi fa impazzire l'idea di passarla sulla piastrella del cesso di un bar, e manco finisco di pensarlo che già la punta della matita è sotto il tuo nome e già sta scrivendo, senza aspettare istruzioni dal resto di me. Come se si muovesse da sola, come se avesse una sua volontà. Come se sapesse meglio di me cosa ci fa là, come se la mente fosse sua, e io il suo strumento. 
Guardo la piastrella.
C'è il tuo nome e, sotto, l'unica cosa che avrei voluto scriverti. 

Come stai?

pt.4

A volte, mi capita di pensare che sarebbe confortante non sapere che il tempo passa.

Elemosinare empatia al Mondo non ha senso. Il sole continuerà a sorgere e a tramontare, anche quando sarò in ginocchio, piegata dai singhiozzi. Anche quando chiederò pietà alla Luna e le pregherò di restare ancora un po', perché non sono pronta per un nuovo giorno. Perché trovo ingiusto non potermi prendere del tempo in più.
È come se un regista capriccioso ed esigente mi prendesse con la forza per un polso e mi costringesse a recitare una parte che non conosco in uno spettacolo di cui ho solo sentito parlare. 
Niente prove generali, niente copione.
I riflettori puntati in faccia, gli occhi che lacrimano e, nel buio, il pubblico che non riesco a vedere. Sorride? È annoiato? Mi ascolta?
C'ho 'sto faro negli occhi e non vedo oltre la punta del mio naso. Per quanto ne so, potrei esserci solo io.
Vorrei girarmi, dire al regista che non sono pronta e che lui è un pezzo di merda, ma la luna e il sole non hanno pietà e se ne fregano se so la parte, se mi sento pronta, se il mio monologo verrà ascoltato da mille persone o da cento o dal tizio che passa la scopa dopo ogni spettacolo.

pt.3

E' una dolce condanna quella che mi fa affrettare il passo ad ogni angolo di strada, quando gioco con me stessa e con te che non lo sai, 
e facciamo che sarai lì, una volta che avrò girato l'angolo. 

Facciamo che chiudo gli occhi, conto fino a dieci, li riapro e tu sei qui.
Come un nascondino con delle regole che sappiamo solo noi.

Facciamo che spengo il telefono, così se non mi chiami non lo so.

L'illusione di trovare la tua mano dall'altra parte del tavolo ad ogni maledetto concerto e continuare a chiedermi se sia possibile incontrarsi dentro a una canzone, ché per strada non succede mai.

Che porca puttana, al mio tavolo, puntuale, capita lo stronzo che prende la birra che prendevi sempre tu e non sei tu. 
Non sei tu, sono io.

Ti cercherò sempre, ad ogni maledetto concerto, tra la folla in tempesta, ti cercherò per non cadere.

Mi cercavi per non farmi cadere.

È facile cadere, se non torni mai.