martedì 22 settembre 2015

Neapolitan diary #1: Storia di un'imballata che s'addà scetà

La prima volta in cui ho messo piede a Napoli, avevo diciotto anni. Era l’ultima gita scolastica, avevo  seri problemi a mettere l'eye-liner e pensavo che le magliette larghe e sformate di Decathlon mi conferissero un aspetto trasandato e quindi sexy. Fu per questo che un ragazzino del luogo, orecchino zirconato trafiggente il lobo e taglio da moicano, si sentì in dovere di farmi notare che non era esattamente così, passandomi affianco e urlando uno sprezzante “marò, quant si bbrutt”.
Da quel giorno, non ho mai più considerato le magliette doymos qualcosa di più dignitoso di un pigiama o di un outfit da supermercato sotto casa.


Una foto di quella precipua gita.
Giacca a vento da sciatore (Decathlon)

Perché Napoli è così, se deve insegnarti, lo fa con le bastonate. Non ci sono avvertimenti, segnali, nessuno che ti dice “senti guarda, questa cosa qui la stai sbagliando”. Non ci sono le mezze misure, o le cose le fai bene o “ti fanno una latrina” fino a quando non ti svegli.

Sin da piccola, ho desiderato vivere qui. Mio nonno, il papà di mia mamma, era napoletano. Io non l'ho mai conosciuto, ma la mamma mi ha sempre raccontato di lui, di quanto fosse solitario e taciturno, delle serate intere che passava chino sulla scrivania, illuminato da un'unica flebile lampadina, curvo sui suoi album di francobolli rari (che per lui erano la cosa più preziosa al mondo), e di come gli brillavano gli occhi quando parlava della sua città - Napoli -, mentre con la matita tracciava le linee essenziali delle strade del Vomero - dove giocava da bambino - usando il retro di vecchi scontrini. Avrebbe voluto tornare nella sua città con mia mamma, farle studiare lì architettura e ripercorrere quelle strade a lui così care, ma il destino ha voluto altro per lui, e mio nonno si è spento a Bari, desiderando fino alla fine di scorgere per l'ultima volta le vette del Vesuvio.

Sono cresciuta ascoltando le storie del nonno, filtrate dai ricordi e dalla voce di mia mamma, che pure Napoli non l'aveva mai vista. Ascoltavo rapita le storie di questa terra spettacolare, viva e colorata, in cui erano nati Totò, Eduardo, Sophia. La terra del caos meraviglioso, con quei vicoli caratteristici, i panni colorati appesi ai fili, le signore coi vestiti a fiori che fanno la spesa al mercato, gli scugnizzi per strada e Pulcinella e pizza e mandolino. 

Effettivamente, per certo numero di anni ho avuto una visione un tantino distorta e stereotipata di Napoli. Però, capitemi, io non l'avevo mai vista.
Napoli la capisci (più o meno) quando la vivi, quando ti ci perdi e ti ci trovi. E io, qui, mi sono persa innumerevoli volte, in innumerevoli modi.
Venire a vivere qui, cercare un lavoro, crearmi uno spazio in questo microcosmo è una continua sfida per me, che abito principalmente nella mia testa. Non è permesso distrarsi, non è permesso sbagliare. Non è permesso deludermi e deludere. Non è permesso continuare a esistere come puro spirito, qui devi essere carne viva e pulsante, anema e core.

E a chi mi chiede perché, tra i miliardi di posti e città del mondo, abbia scelto proprio Napoli, posso solo dire che, ogni volta che sono venuta qua, è sempre il core che ho seguito.



faccio la poser con gli attrezzi da lavoro giusto per far capire che sto facendo i lavori in casa, in realtà ho dei valletti autoctoni che mi aiutano e che ringrazio con tutto il mio cuore.

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