domenica 21 ottobre 2018

Shish ok.

18.10.2002 A tutte le volte che ti ho presa in braccio, Al momento in cui ho chiesto ai miei genitori se fossi mia per davvero,
e a quello in cui ho capito che ero io ad essere già perdutamente tua e che lo sarei stata per sempre.
Alla prima volta che ho pianto per te, terrorizzata all'idea di non essere in grado di proteggerti, al primo viaggio in auto verso casa, con te ancora nella tua scatola di cartone che saltellavi e mi facevi paura.
A tutti gli omogeneizzati che ti sei spazzolata, ai dentini da latte che hai lasciato per casa (e a quelli che hai ingoiato).
Al trasportino che hai sapientemente rotto in punti strategici che ti permettessero la fuga, alle catene e ai guinzagli spezzati.
Alla prima volta che abbiamo sentito la tua voce, a tutte le volte che abbiamo provato a farti capire che non era necessario abbaiare per ore, per farci capire che questa o quella persona non ti andava a genio.
A tutte le figuracce che ci hai fatto fare mordendo quei poveri ingenui che volevano accarezzarti, a tutti i cani di grossa taglia coi quali puntualmente volevi litigare.
Alla bandana che ti mettevamo al collo e che portavi fiera quando faceva un po' più freddo.
Ai biscotti che mamma ti dava di nascosto.
A tutte le volte in cui hai provato a difenderci da pericoli inesistenti, a tutte le volte che sono uscita di casa accompagnata dal tuo abbaiare incessante.
Non sai che darei per sentirlo ancora.
A tutte le volte in cui sei salita sul mio letto, o sulla scrivania di Vito.
A quel gioco buffo che facevamo noi due e che hai avuto la forza di donarmi un'ultima volta poco prima di addormentarti per sempre.
Alle notti insonni passate sul divano, per controllare che stessi bene, e a quelle in cui venire a darti un bacio o una carezza ha dato un senso al mio vagare notturno.
A tutte quelle volte in cui sono tornata a casa e la prima cosa che ho cercato eri tu
e a tutte le volte che ancora lo faccio, sperando di trovarti sul divano, tra i cuscini.
Al tuo zampettare che mi faceva compagnia, ai tuoi sospirini, ai borbottii e al tuo modo sgraziato di mangiare.
Ai croccantini sparsi per casa.
A tutte le canzoni che ti ho cantato, a tutti i giocattoli che hai distrutto.
A tutte le volte che hai accolto il mio cuore spezzato con la pazienza di una sorella, di una figlia, di una madre.
A quel momento in cui ti ho giurato che non ti avrei mai abbandonata, e a quello in cui ho desiderato di non averti mai promesso una cosa del genere perché ero convinta di non avere la forza e il coraggio di restare con te che eri su quel tavolino freddo, mentre la medicina ti fermava il cuore per sempre.
Non immagini quanto, il pensiero di dover affrontare quel momento, mi abbia tormentata ogni giorno, da quando sei entrata nella mia vita.
A te che sei stata la mia prima amica del cuore, la mia confidente, l'amore della mia vita.
A te che sei stata desiderata per anni e che quando ti ho vista non eri come ti immaginavo, ma non avresti potuto essere diversa. Eri tu, eri mia, eri per me. A tutte le cose che sono state e resteranno sempre solo nostre. A te che sei stata e sarai per sempre l'insegnamento più grande che abbia ricevuto da questa vita.

domenica 19 agosto 2018

le cose che ho imparato facendo un puzzle

Qualche settimana fa, mi è venuto il piccio del puzzle.
O meglio, dei puzzle.
Ne volevo (voglio?) tanti, raffiguranti quadri famosi che mi piacciono. Li volevo (voglio?) appendere nel mio ufficio a imperitura memoria dell'impegno - all'epoca decisamente sottostimato - che ci avrei messo a comporli.
Del resto, pensavo, da piccola risolvevo i puzzle della Disney da 20 pezzi con una destrezza tale da far credere ai miei che fossi una bambina prodigio.
Le cose non possono essere cambiate poi così tanto.
Che sarà mai un puzzle con l'urlo di Munch da 1000 pezzi a 27 anni, rispetto a uno de La Bella e La Bestia da 20 pezzi, a 2 anni?

Povera scema.

Tuttavia, in queste notti insonni passate a bestemmiare questa scelta infelice, con particolare enfasi sul costo spropositato del suddetto puzzle (17 euro, na follia), sono riuscita a ricavare delle fondamentali lezioni di vita. Un po' perché mi piace trovare il senso in ogni cagata che faccio, un po' perché pensare a qualcosa mentre cerco di capire se sto attaccando un pezzo di vialetto nel mezzo del cielo mi ha salvata dalla pazzia.

Ho imparato, dunque, che fare un puzzle è un lavoro di concentrazione, intuito, culo.
Ho imparato che devo iniziare dalla cornice, per avere il quadro iniziale della situazione. Avere dei limiti, dei bordi, dei confini entro i quali costruire il mio disegno.
Ho imparato che, ogni tanto, qualcuno mi aiuterà a comporre un laghetto, o uno stagno, o la faccina del tipo che urla. E ho capito anche, che quel qualcuno in realtà non ha fatto che forzare dei pezzi che gli sembravano combaciare, scombinandomi tutto quanto.
Ho imparato a distruggere e ricomporre, con la consapevolezza, stavolta, che due pezzi che non stanno bene insieme non vanno forzati perché uno dei due potrebbe piegarsi e rovinarsi per sempre.
Non è facile trovare l'esatta sfumatura di colore che cerchi, mentre fai un puzzle. Centinaia di pezzi hanno colori simili tra loro, alcuni talmente tanto da confonderti e gettarti nella frustrazione più nera quando, dopo vari tentativi di incastro, devi gettare via il pezzo prescelto e cercarne un altro, in mezzo a 999 altri che sembrano tutti uguali.
Ho imparato che, ogni tanto, è giusto prendersi delle pause, anche lunghe, per evitare di commettere altri errori causati dallo sfinimento e dallo sconforto.

E soprattutto, ho imparato che il tutto a mille sotto casa mia non vende il picoglass della misura giusta per appendere 'sto cazzo di coso quando l'avrò finito.
Se mai lo finirò.

martedì 8 maggio 2018

a million dreams

non so dove siano finiti
forse tra le bollette da pagare,
tra le mail alle quali devo rispondere da settimane
tra gli amici che non sento più
tra le ore in ufficio perché meglio di così non si trova
tra tutte le cose belle che rimando a domani
ché oggi non c'ho tempo
ché oggi non c'ho voglia
che quando c'ho tempo o voglia, sono troppo stanca
ed è meglio dormire per recuperare le forze
ché domani si ricomincia

chissà che provavo, quando sognavo

giovedì 25 gennaio 2018

due centesimi (o un sacchetto biodegradabile, se preferite) sulla questione Labadessa

Non sono mai stata una grande fan di Labadessa. Tuttavia, gli riconosco l'enorme merito di aver creato uno stile unico, riconoscibile tra mille, utilizzando pochi elementi: una tavolozza di colori minimal, un pennuto con lo sguardo vacuo. Di Mattia, mi piace come disegna, mi piace lo stile, ma non mi dice nulla. Anzi, per un periodo l'ho trovato ripetitivo, noioso e banale. Uno che va bene a fare le frasi da condividere su tumblr, per intenderci.



Ho vissuto con grande perplessità la sua breve ascesa, ma all'epoca era tanto di moda fare i disagiati con l'ansia e gli uccelli rossi di Labadessa si prestavano perfettamente allo scopo.

Poi puff, sparito, come spesso accade coi fenomeni made in internet che sconfinano nel cartaceo, o nel cinematografico, o nel musicale. Insomma, quando li trovi alla Feltrinelli sai già che sono spacciati.

E così è stato, almeno fino a ieri.



Il fatto è semplice: a lui, alle 11 e passa di sera, viene in mente una stronzata.
La scrive, la pubblica.

La gente s'incazza. Le femministe s'indignano.
Cultura dello stupro
meme
articoli
EH MA PERCHE' NON SI SCUSA > lui si scusa > EH MA NON COSì

E, dall'altra parte, chi lo difende a spada tratta dicendo che chi lo critica non lo capisce perché è artista.

Io mi permetto di sopraelevarmi a un livello ancora più iperuranico sentenziando un poderoso: STICAZZI.

Allò, che Labadessa abbia detto una cagata, è fuori ogni discussione. Cioè, la cosa poteva andare bene fino a quando non ha specificato che, la fantomatica app per sveltine in metro, dovesse includere tra le sue features anche la funzione "addormenta ragazza". Obiettivamente, è quello che mette un po' a disagio e crea quell'effetto "stupro al cloroformio" che non piace.
D'altra parte, è anche vero che fare una battuta senza offendere nessuno, oggi, è diventato impossibile. Se poi metti a far battute uno che non ci è manco portato, allora si scatena il cataclisma.

E' da un po' che ho la sensazione che ci siano appositi squadroni di gente che sta lì a soppesare ogni parola in ogni sua sfumatura di significato per beccare la falla nel sistema e fare il putiferio. Giuro, pur gestendo un blog con un'utenza minima come questo qua, ho l'ansia ogni volta che devo parlare di un argomento un filino più "scomodo", siamai qualche fiocco di neve tutto speciale dovesse offendersi o darmi addosso per cose che loro sono convinti/e/x/y/k di aver letto tra le righe.

Però, di qui a dire che tutti quelli che si sono sentiti offesi sono na manica de stronzi che non capiscono che Mattia è un artista e l'arte va fuori dagli schemi, non conosce regole ecc ce ne passa. Cioè, raga, no.

Non stiamo parlando di Louis CK o di Bill Hicks.
Ci vuole classe, a fare black humor.
Così come ci vuole classe (e cultura) per distinguere una battuta riuscita da un'uscita infelice.
E la classe sta anche nell'ammettere che qualcuno ha sbagliato, senza aspettarlo sotto casa con torce e forconi.

Detto ciò, ma che cazzo di filmone è, La Bella Addormentata?




mercoledì 17 gennaio 2018

riflessione: le unghie di gel

Confesso: soffro di onicofagia.
Nel senso che mi mangio le unghie.

Lo faccio da quando ho memoria, è uno dei tanti comportamenti autolesionistici che assumo quando sono stressata, insieme alla tricotillomania e alla visione compulsiva di Troppo Belli.




E' che alle volte ho bisogno di farmi del male.
Se avessi le palle, me le prenderei a martellate, ma essendone sprovvista devo in qualche modo compensare.
Per un brevissimo periodo della mia vita, sono riuscita a non automutilarmi le unghie, ma la situazione è drasticamente peggiorata da un anno a questa parte, tanto da far somigliare le mie falangette ai gommini delle matite.
Facendo un lavoro per il quale ho bisogno di avere le mani in ordine (a nessuno piace essere mandato a fanculo da un dito medio sprovvisto di apposita unghia smaltata) e avendo ormai raggiunto l'indipendenza economica (non è vero, non l'ho raggiunta. Però posso levarmi qualche sfizio senza sentirmi particolarmente in colpa); qualche settimana fa ho deciso di ricorrere alle più moderne tecniche dell'estetica per installarmi delle protesi in plastica su quel che resta delle mie unghie.
Mi sono fatta fare la ricostruzione, in pratica.



Oltre ad aver perso l'orientamento su qualsiasi tipo di tastiera, ho anche acquisito la stessa scioltezza e manualità di Edward Mani Di Forbice alle prese col piatto di pisellini primavera findus.



Tuttavia, come spesso accade, queste situazioni apparentemente normali suscitano in me una serie di riflessioni e domande alle quali non riesco a trovare una risposta univoca.

Stando all'onicotecnica che ha realizzato il miracolo, quella che ho fatto è stata una "ricostruzione con colata di gel".

GEL.

E' questa la parola chiave.

Ora, io non so voi, ma per me il gel è na cosa morbida, gommosa, sploff sploff.
La gelatina è sploff; il gel per i capelli è sploff; la gelatina della simmenthal è sploff.

Mo, perché il gel per le unghie è duro come il cemento armato? Perché non è sploff??

E' una cosa che il mio cervello non riesce a processare, non me ne faccio una ragione.

Io ero tutta felice perché pensavo che tipo mi avrebbero installato queste unghie gommose, resistenti a ogni urto e anche utilissime come antistress portatili.
Invece no, c'ho gli artigli di Wolverine.
Non riesco manco più a suonare l'ukulele.

Però tiro dei vaffanculi raffinatissimi e perfettamente smaltati.