martedì 5 febbraio 2019

pt. 5

È notte, sono sola e cammino per strada. la città è deserta, complice il freddo e una qualche partita della quale m'interessa molto poco. È una di quelle sere troppo belle per sprecarle a far finta di ascoltare gli altri, troppo silenziosa per fingere di aver messo da parte problemi pensieri e paranoie per il bene di un'uscita tra amici. 
Tanto lo so come va a finire. 
La solita birra, le solite cose, gli amici che parlano e i miei occhi che, uno alla volta, s'incollano a uno degli schermi che trasmettono Mtv. Video e audio rigorosamente fuori sincro.
Che poi, me la chiedo da anni 'sta cosa, perché tenere tre, quattro schermi accesi a trasmettere video musicali e usare tracce audio casuali con Spotify, magari pure la versione Free che ti manda le pubblicità a tradimento? Perché in Tv c'è Beyoncè e alla radio passano gli Smiths?
E mentre cerco una risposta intellettuale a questo annoso quesito, vengo richiamata all'ordine. Questo, nel migliore dei casi. 
Nel peggiore (e ahimè più frequente) mi chiedono se sia tutto ok, se ci sia qualche problema.
No amici, sul serio, è che Beyoncè che muove il culo mentre Morissey canta è disturbante, ma un po' mi fa anche ridere.

Però, insomma, stasera questa cosa qua non mi va. Non ho voglia di dare spiegazioni e, se mi vien voglia di fissare la tv in un locale, o di creare strutture a caso coi gusci dei pistacchi, o anche solo di starmene su una panchina a fissare un albero, voglio poterlo fare senza sentirmi in dovere di dover rassicurare chi mi è accanto perché, davvero, va tutto bene.

Che poi -cammino- sul muro accanto alla porta del locale nel quale avevo scelto di entrare, c'è un disegno. Un uomo mascherato, un delfino, una chitarra, delle note, una sigaretta.
Lo guardo, osservo i tratti duri e spigolosi del suo volto, e da quei tratti riconosco le tue mani. 
Ci ho preso, c'è la tua firma, in basso a destra.
Ed ecco che la serata in solitaria, quella che avevo scelto di passare con l'unica incessante compagnia del mio cervello, è diventata una birra con quello che il tempo passato assieme mi ha lasciato di te.
È come banchettare con un fantasma. O un folletto. O un amico immaginario. Fai tu, ché a me sembra tutto un po' banale.
Sarà che ormai sono grande, ho un lavoro, degli obblighi sociali e delle responsabilità e mi sembra così idiota lasciare che un disegno su una parete mi turbi così tanto, nella sera in cui avevo deciso di stare in armonia col mondo. Che poi, forse, cercare l'armonia attraverso l'isolamento non è una strategia poi così brillante.
Così come non è brillante uccidere l'istinto che ho di chiederti, ancora una volta, come cazzo stai, bevendo un sorso di vino ogni volta che prendo quel cavolo di telefono e inizio a digitare.
Ché, un sorso alla volta, il calice di vino diventa un altro calice di vino. Che poi diventano tre. Che poi diventano me, che mi chiudo nel cesso e mi fisso allo specchio e mai -giuro, mai- mi sono sentita così lontana da me stessa. Ma chi cazzo sei, oh? Che guardi? L'ho sempre avuta quella ruga sul labbro? Cristo, ho venticinque anni, non settanta. Magari vedo male.
Con l'età, succede.
Il trucco sbavato mi manda in bestia, non ho manco mezza salvietta per aggiustarlo. Ora penseranno che mi drogo o, peggio, che ho pianto nel cesso. 
Ma io non piango, non piango, non piango, ti dico.
Questa roba qua è casuale, è colpa del freddo. O di un'allergia. O magari è colpa mia che mi sto stropicciando l'occhio da venti minuti per aggiustarmi il trucco.
Mi sa che è questo.
Su una piastrella, accanto allo specchio, di nuovo la tua firma.
Cristo, c'hai trent'anni e ancora imbratti i cessi dei locali?
Mi appoggio al lavandino. Fisso me, o chiunque sia quella povera stronza che mi fissa dall'altra parte dello specchio. Fisso me/quella e la piastrella col tuo nome.
Frugo in borsa. Magari trovo una penna, così posso scriverti almeno qua, posso scriverti "cretino, che cazzo fai? Scrivi il tuo nome sulle piastrelle dei bagni dei locali?"
Magari ci aggiungo qualcosa che capiamo solo io e te, così capisci che sono io e magari stavolta me lo chiedi tu, come sto.
Però, se ti scrivo che sei un cretino a scrivere su una piastrella, e se per farlo scrivo a mia volta su una piastrella, sono cretina anche io? 
Magari ti faccio un cuoricino, un banale cuoricino.
Non c'è nulla di male, è una cosa che potrebbe disegnarti anche un amico. 
Però, sai, un cuoricino potrebbe essere frainteso e noi ormai quella fase là l'abbiamo passata da un pezzo. Io ho la mia vita, tu la tua.
Non è il caso di essere ambigui, non vorrei lasciarti un messaggio sbagliato, magari si creano equivoci, casini vari e non è il caso.
Facciamo che ti lascio una faccina che sorride. Uno smile. Un banale smile accanto al tuo nome. Semplice, cordiale. Come i sorrisi di cortesia che riservi alla gente che incontri per strada, quella che non hai voglia di fermare e alla quale non hai voglia di chiedere come sta; però sta male dire "ciao" e passare oltre, allora dici "ciao" ma sorridi pure, così lui/lei capisce che non ti sta sulle palle e che magari vai di fretta, e tu ti senti meno in colpa.
Però -e ancora cerco una penna nella borsa- non vorrei, magari, che pensassi che questo smile te l'ha lasciato qualcun'altro. Magari una tizia a caso che ti piace e con la quale non vedi l'ora di attaccare bottone. Quale scusa migliore se non "ehi ciao, hai messo tu uno smile accanto alla mia firma, sulla mattonella nel cesso di tal locale?".
Non che sia gelosa, sia chiaro.
Io ho la mia vita, tu la tua ed è giusto che sia così.
Ma non ho intenzione di agevolarti i flirt. 
Che poi, giro perennemente con penne e pennarelli in borsa ché non si sa mai, ma oggi non ne trovo una a pagarla oro.
Per un folle momento, penso di bucarmi l'indice col canino e di scrivere su quella mattonella col sangue. Però, se è vero che ho in corpo tre calici di vino, che non sono propriamente pochi; è anche vero che non sono abbastanza da indurmi all'automutilazione per l'anima di nulla. 
Anche perché, diciamocelo, per quanto il contenuto possa essere amichevole e cordiale, nessun messaggio scritto col sangue ispira particolare fiducia, né esprime particolare sanità mentale.
Sono qui da non so nemmeno più quanto, ancora alla ricerca di una penna perché devo assolutamente scriverti questa cosa, o disegnartela o ancora non so cosa, non so come, non so perché ma devo.
Trovo una matita rossa, per labbra. Non mi fa impazzire l'idea di passarla sulla piastrella del cesso di un bar, e manco finisco di pensarlo che già la punta della matita è sotto il tuo nome e già sta scrivendo, senza aspettare istruzioni dal resto di me. Come se si muovesse da sola, come se avesse una sua volontà. Come se sapesse meglio di me cosa ci fa là, come se la mente fosse sua, e io il suo strumento. 
Guardo la piastrella.
C'è il tuo nome e, sotto, l'unica cosa che avrei voluto scriverti. 

Come stai?

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