martedì 5 febbraio 2019

pt.7






Le domeniche più belle erano quelle in cui la luce del sole entrava di soppiatto
dalla finestrella in alto, quella coi vetri rigati che non chiudevamo mai.
Aprivo gli occhi, mi guardavo intorno ed era tutto sospeso: le pareti bianche,
 i poster mezzi scoloriti a coprire le macchie di umidità,
i sottobicchieri che procacciavo per te nei pub con un'assiduità
che prima di allora avevo riservato solo alle figurine dei Pokémon, quando ero piccola.
I miei occhi vagavano per la stanza, avidi di ogni dettaglio,
mossi dal timore di dimenticare come s'incrociavano i tubi sul soffitto,
o quali fossero i punti in cui il pavimento in linoleum era lacerato.
Alla fine, quando ero ormai sazia di dettagli, mi voltavo a guardarti.
 Le ciglia chiuse, le palpebre mosse dai sogni che mi avresti raccontato da sveglio.

Ti osservavo dormire e tu percepivi il mio sguardo.
Sorridevi, con gli occhi ancora chiusi.
Con le mani mi cercavi e mi trovavi, mi stringevi e sorridevi ancora, di più.

Mi stringevo a te, col mio orecchio sul tuo cuore.
E pensavo che quel battito era solo per me,
e che era splendido e terribile non poter abbracciare un suono.
L'ho lasciato ai miei ricordi, alla mia testa
che ne modifica ritmo e intensità a suo piacimento,
come se non fosse stato importante, come se una cosa valesse l'altra.

Ci alzavamo, ci rivestivamo intervallando ogni gesto a un bacio,
o un abbraccio, o una qualsiasi cosa che ci tenesse sospesi ancora per un po'.
Non c'era fretta, non c'erano cose da fare.
Sì, l'università, lo studio, la laurea; ma alla fine chissenefrega.
C'eri tu, c'ero io. C'era la tua chitarra, la vecchia PlayStation
 e quel gioco che non abbiamo finito mai.
C'era la musica che veniva dal piano di sopra.
C'erano le bottiglie vuote, i vestiti sul pavimento,
i posacenere, gli oggetti dimenticati.
E noi che rendevamo romantico il disordine senza alcuno sforzo.
Alle volte, uscivi dalla stanza mentre io ancora combattevo con la voglia di rivestirmi.
Tornavi e avevi in mano due tazzine di caffè.

Uscivamo, il profumo dei gelsomini mi mandava in estasi.
Lo sai che è il mio profumo preferito, quello dei gelsomini?
Lo sai, te lo dicevo ogni volta.
Percorrevamo il viale mano nella mano e io trotterellavo felice
e guardavo il cielo e poi gli alberi, i gatti,
le vecchie affaccendate sui loro balconi.
E guardavo te, e ogni tanto ti sorprendevo a guardarmi e a sorridere.

Percorrevamo in auto la strada che separava le nostre case
e io guardavo il mare e ti dicevo
 che, magari, la domenica successiva avremmo potuto fare una passeggiata là.
Mi dicevi che sì, andava bene, e di domeniche ne sono passate tante,
ma quella passeggiata non l'abbiamo fatta mai.
Mi prendevi la mano ogni volta che cambiavi marcia. Mi baciavi ad ogni semaforo.
Mi lasciavi sotto casa e mi baciavi, e io baciavo te
e ridendo ci chiedevamo se avremmo mai smesso di baciarci,
se saresti mai riuscito a riaccompagnarmi a casa
e a lasciarmi andare senza baciarmi mille volte, prima.

Non ci sei riuscito mai.


pt.6

Noi, che abbiamo venti/ventuno/ventidue/ventitrè/ventiquattro/venticinque anni e della vita non abbiamo ancora capito nulla.

Noi che sentiamo la pressione della competizione coi nostri coetanei che qualcosa di buono l'hanno fatta. 

Noi disordinati, caotici, pensierosi, romantici, disillusi e tutta questa roba che fa tanto belli e dannati.

Di lettere che cominciano così ne spuntano un paio al mese:
plurale maiestatis, foto di ragazza con cuffiette nelle orecchie che guarda malinconica fuori dal finestrino di un treno e compatimento collettivo. Diventano virali, ci rinuorano per i dieci/quindici minuti successivi alla loro lettura e poi spariscono nell'etere. Lettere fatte di frasi brevi che significano tutto e niente, lettere fatte di elenchi e ripetizioni a inizio frase perché abbiamo la convinzione che quello sia il modo più efficace di far passare concetti e pensieri di una certa portata.*

*(e sì, potrei star usando lo stesso stile che sto criticando - volutamente)

Lettere che esaltano l'indecisione, la vita vissuta in perenne attesa di qualcosa o qualcuno.
Lettere che esaltano la mediocrità, insieme ad articoli che erigono qualsiasi difetto o stranezza a sintomo di indiscutibile intelligenza.

I single sono più intelligenti.
Chi ha le maniglie dell'amore è più intelligente.
Chi scorreggia sotto le lenzuola è più intelligente.
I solitari sono più intelligenti.
Le donne con le tette piccole sono più intelligenti.
Gli uomini con le tette sono più intelligenti.

"La scienza dice". E noi condividiamo.

Tutti assiomi ricavati da un qualche studio in una qualche università della California in cui i ricercatori passano le giornate ad appuntarsi chi, tra panzoni e petomani, risolva più rapidamente il cubo di Rubik.
Davvero, è così che me lo immagino.

Sembra una di quelle gare in cui alla fine vincono tutti. 
"Bravo, hai partecipato alla vita, qualcosa di buono sicuramente l'hai fatto! Come dici? Mangi gli spaghetti usando il cucchiaio? Allora sei più intelligente!"

Stesso discorso per le lettere accorate, tipiche dei blog e dei giornali online che campano di clickbaiting.

"A te, ventiqualcosenne che ancora vivi dai tuoi e passi la vita a smanettare al pc invece di fare qualcosa di buono. Non sei un imbecille pigro e impreparato alla vita, no! Sei speciale! Vieni a leggere mille storie di altri speciali come te! Non sei solo!"

La verità è che siamo degli inetti e che abbiamo bisogno di qualcuno che ci dica che non è così, ma che stiamo solo aspettando il nostro momento per sbocciare, come se dipendesse da un qualcosa che non siamo noi. Siamo passati dal buttare i nostri pomeriggi a guardare i cartoni animati al momento in cui qualcuno ci ha messo un diploma o una laurea in mano e ci ha detto "quella è la vita, vai e fanne il tuo capolavoro".

Nulla di più spiazzante. Libertà liberticida.

E vai di frasi motivazionali su Facebook, di foto di giovani americani biondissimi su Instagram che passano le giornate a frullarsi complicatissime colazioni ipocaloriche e a comprare vestiti e accessori nuovi. E tu stai a casa a guardare le loro vite, mentre te ne stai in tuta a sgranocchiare snack e aspetti il download dell'ultima puntata di una delle settanta serie tv che segui. E l'unica cosa che aspetti con ansia sono gli infiniti reboot di quella roba anni '90 che ha forgiato la tua mediocre personalità, salvo poi criticarli sul tuo blog non appena esci dal cinema con parole al vetriolo perché "era meglio l'originale". E non lo ammettiamo che questo perpetuo ripetersi di film, serie tv, cartoni animati riveduti e corretti altro non è che il nostro modo per sentirci ancora legati a quegli anni, di aggrapparci con tutte le nostre forze alla convinzione che quei momenti di innocenza e spensieratezza non sono ancora finiti.

Ogni tanto, giusto per ingannare te stesso fingendo che stai davvero facendo qualcosa, cerchi lavoro online. Incredibile il numero di parole zeppe di sillabe altisonanti che la gente che scrive annunci usa per dire "cerchiamo operatore call center" o "tizio che vende depuratori porta a porta". Ma loro sono interessati alla tua crescita professionale, eh! Loro hanno a cuore la tua formazione, la tua esperienza, la tua carriera! Duecento euro di fisso e dieci euro a provvigione, il tutto al piccolo prezzo della tua anima. Che quasi quasi guadagni di più restando ad ammuffire sul letto e a cercare foto di gattini carini.

"Ma non è un ufficio come gli altri, è una grande famiglia! Vedi la foto di questo generico ragazzo? Sette mesi fa era come te! Poi, una provvigione alla volta (ottenuta chiedendo ai passanti di donare soldi ai bambini africani), in sette mesi è diventato il nostro capo! Questo grattacielo è tutto suo! Devi essere carina, di bella presenza! Sorridi sempre, scherza con le persone! E' un lavoro per il quale bisogna essere svegli, comunicativi! Fai anche vedere un paio di foto di bambini con la pancia gonfia e con le mosche sugli occhi, che s'inteneriscono e sganciano prima i soldi!"

(Giuro di non aver inventato una parola di questo discorso. Me lo sono sentita dire sul serio, prima di uscire da quell'ufficio strappando il bigliettino con su scritto l'orario del prossimo incontro).

No, davvero, come fanno le ragazze di Instagram? Positività e tisane appiattisci-stomaco bastano a salvarci dal tracollo?

Ed è assurdo il fatto che non trovi risposte a queste domande, dal momento che avendo pancia, cellulite e doppie punte, sono "più intelligente" (di chi?) almeno secondo tre-quattro articoli diversi.

pt. 5

È notte, sono sola e cammino per strada. la città è deserta, complice il freddo e una qualche partita della quale m'interessa molto poco. È una di quelle sere troppo belle per sprecarle a far finta di ascoltare gli altri, troppo silenziosa per fingere di aver messo da parte problemi pensieri e paranoie per il bene di un'uscita tra amici. 
Tanto lo so come va a finire. 
La solita birra, le solite cose, gli amici che parlano e i miei occhi che, uno alla volta, s'incollano a uno degli schermi che trasmettono Mtv. Video e audio rigorosamente fuori sincro.
Che poi, me la chiedo da anni 'sta cosa, perché tenere tre, quattro schermi accesi a trasmettere video musicali e usare tracce audio casuali con Spotify, magari pure la versione Free che ti manda le pubblicità a tradimento? Perché in Tv c'è Beyoncè e alla radio passano gli Smiths?
E mentre cerco una risposta intellettuale a questo annoso quesito, vengo richiamata all'ordine. Questo, nel migliore dei casi. 
Nel peggiore (e ahimè più frequente) mi chiedono se sia tutto ok, se ci sia qualche problema.
No amici, sul serio, è che Beyoncè che muove il culo mentre Morissey canta è disturbante, ma un po' mi fa anche ridere.

Però, insomma, stasera questa cosa qua non mi va. Non ho voglia di dare spiegazioni e, se mi vien voglia di fissare la tv in un locale, o di creare strutture a caso coi gusci dei pistacchi, o anche solo di starmene su una panchina a fissare un albero, voglio poterlo fare senza sentirmi in dovere di dover rassicurare chi mi è accanto perché, davvero, va tutto bene.

Che poi -cammino- sul muro accanto alla porta del locale nel quale avevo scelto di entrare, c'è un disegno. Un uomo mascherato, un delfino, una chitarra, delle note, una sigaretta.
Lo guardo, osservo i tratti duri e spigolosi del suo volto, e da quei tratti riconosco le tue mani. 
Ci ho preso, c'è la tua firma, in basso a destra.
Ed ecco che la serata in solitaria, quella che avevo scelto di passare con l'unica incessante compagnia del mio cervello, è diventata una birra con quello che il tempo passato assieme mi ha lasciato di te.
È come banchettare con un fantasma. O un folletto. O un amico immaginario. Fai tu, ché a me sembra tutto un po' banale.
Sarà che ormai sono grande, ho un lavoro, degli obblighi sociali e delle responsabilità e mi sembra così idiota lasciare che un disegno su una parete mi turbi così tanto, nella sera in cui avevo deciso di stare in armonia col mondo. Che poi, forse, cercare l'armonia attraverso l'isolamento non è una strategia poi così brillante.
Così come non è brillante uccidere l'istinto che ho di chiederti, ancora una volta, come cazzo stai, bevendo un sorso di vino ogni volta che prendo quel cavolo di telefono e inizio a digitare.
Ché, un sorso alla volta, il calice di vino diventa un altro calice di vino. Che poi diventano tre. Che poi diventano me, che mi chiudo nel cesso e mi fisso allo specchio e mai -giuro, mai- mi sono sentita così lontana da me stessa. Ma chi cazzo sei, oh? Che guardi? L'ho sempre avuta quella ruga sul labbro? Cristo, ho venticinque anni, non settanta. Magari vedo male.
Con l'età, succede.
Il trucco sbavato mi manda in bestia, non ho manco mezza salvietta per aggiustarlo. Ora penseranno che mi drogo o, peggio, che ho pianto nel cesso. 
Ma io non piango, non piango, non piango, ti dico.
Questa roba qua è casuale, è colpa del freddo. O di un'allergia. O magari è colpa mia che mi sto stropicciando l'occhio da venti minuti per aggiustarmi il trucco.
Mi sa che è questo.
Su una piastrella, accanto allo specchio, di nuovo la tua firma.
Cristo, c'hai trent'anni e ancora imbratti i cessi dei locali?
Mi appoggio al lavandino. Fisso me, o chiunque sia quella povera stronza che mi fissa dall'altra parte dello specchio. Fisso me/quella e la piastrella col tuo nome.
Frugo in borsa. Magari trovo una penna, così posso scriverti almeno qua, posso scriverti "cretino, che cazzo fai? Scrivi il tuo nome sulle piastrelle dei bagni dei locali?"
Magari ci aggiungo qualcosa che capiamo solo io e te, così capisci che sono io e magari stavolta me lo chiedi tu, come sto.
Però, se ti scrivo che sei un cretino a scrivere su una piastrella, e se per farlo scrivo a mia volta su una piastrella, sono cretina anche io? 
Magari ti faccio un cuoricino, un banale cuoricino.
Non c'è nulla di male, è una cosa che potrebbe disegnarti anche un amico. 
Però, sai, un cuoricino potrebbe essere frainteso e noi ormai quella fase là l'abbiamo passata da un pezzo. Io ho la mia vita, tu la tua.
Non è il caso di essere ambigui, non vorrei lasciarti un messaggio sbagliato, magari si creano equivoci, casini vari e non è il caso.
Facciamo che ti lascio una faccina che sorride. Uno smile. Un banale smile accanto al tuo nome. Semplice, cordiale. Come i sorrisi di cortesia che riservi alla gente che incontri per strada, quella che non hai voglia di fermare e alla quale non hai voglia di chiedere come sta; però sta male dire "ciao" e passare oltre, allora dici "ciao" ma sorridi pure, così lui/lei capisce che non ti sta sulle palle e che magari vai di fretta, e tu ti senti meno in colpa.
Però -e ancora cerco una penna nella borsa- non vorrei, magari, che pensassi che questo smile te l'ha lasciato qualcun'altro. Magari una tizia a caso che ti piace e con la quale non vedi l'ora di attaccare bottone. Quale scusa migliore se non "ehi ciao, hai messo tu uno smile accanto alla mia firma, sulla mattonella nel cesso di tal locale?".
Non che sia gelosa, sia chiaro.
Io ho la mia vita, tu la tua ed è giusto che sia così.
Ma non ho intenzione di agevolarti i flirt. 
Che poi, giro perennemente con penne e pennarelli in borsa ché non si sa mai, ma oggi non ne trovo una a pagarla oro.
Per un folle momento, penso di bucarmi l'indice col canino e di scrivere su quella mattonella col sangue. Però, se è vero che ho in corpo tre calici di vino, che non sono propriamente pochi; è anche vero che non sono abbastanza da indurmi all'automutilazione per l'anima di nulla. 
Anche perché, diciamocelo, per quanto il contenuto possa essere amichevole e cordiale, nessun messaggio scritto col sangue ispira particolare fiducia, né esprime particolare sanità mentale.
Sono qui da non so nemmeno più quanto, ancora alla ricerca di una penna perché devo assolutamente scriverti questa cosa, o disegnartela o ancora non so cosa, non so come, non so perché ma devo.
Trovo una matita rossa, per labbra. Non mi fa impazzire l'idea di passarla sulla piastrella del cesso di un bar, e manco finisco di pensarlo che già la punta della matita è sotto il tuo nome e già sta scrivendo, senza aspettare istruzioni dal resto di me. Come se si muovesse da sola, come se avesse una sua volontà. Come se sapesse meglio di me cosa ci fa là, come se la mente fosse sua, e io il suo strumento. 
Guardo la piastrella.
C'è il tuo nome e, sotto, l'unica cosa che avrei voluto scriverti. 

Come stai?

pt.4

A volte, mi capita di pensare che sarebbe confortante non sapere che il tempo passa.

Elemosinare empatia al Mondo non ha senso. Il sole continuerà a sorgere e a tramontare, anche quando sarò in ginocchio, piegata dai singhiozzi. Anche quando chiederò pietà alla Luna e le pregherò di restare ancora un po', perché non sono pronta per un nuovo giorno. Perché trovo ingiusto non potermi prendere del tempo in più.
È come se un regista capriccioso ed esigente mi prendesse con la forza per un polso e mi costringesse a recitare una parte che non conosco in uno spettacolo di cui ho solo sentito parlare. 
Niente prove generali, niente copione.
I riflettori puntati in faccia, gli occhi che lacrimano e, nel buio, il pubblico che non riesco a vedere. Sorride? È annoiato? Mi ascolta?
C'ho 'sto faro negli occhi e non vedo oltre la punta del mio naso. Per quanto ne so, potrei esserci solo io.
Vorrei girarmi, dire al regista che non sono pronta e che lui è un pezzo di merda, ma la luna e il sole non hanno pietà e se ne fregano se so la parte, se mi sento pronta, se il mio monologo verrà ascoltato da mille persone o da cento o dal tizio che passa la scopa dopo ogni spettacolo.

pt.3

E' una dolce condanna quella che mi fa affrettare il passo ad ogni angolo di strada, quando gioco con me stessa e con te che non lo sai, 
e facciamo che sarai lì, una volta che avrò girato l'angolo. 

Facciamo che chiudo gli occhi, conto fino a dieci, li riapro e tu sei qui.
Come un nascondino con delle regole che sappiamo solo noi.

Facciamo che spengo il telefono, così se non mi chiami non lo so.

L'illusione di trovare la tua mano dall'altra parte del tavolo ad ogni maledetto concerto e continuare a chiedermi se sia possibile incontrarsi dentro a una canzone, ché per strada non succede mai.

Che porca puttana, al mio tavolo, puntuale, capita lo stronzo che prende la birra che prendevi sempre tu e non sei tu. 
Non sei tu, sono io.

Ti cercherò sempre, ad ogni maledetto concerto, tra la folla in tempesta, ti cercherò per non cadere.

Mi cercavi per non farmi cadere.

È facile cadere, se non torni mai.

pt.2

Vorrei fartele vedere, le mie notti senza te. Vorrei farti vedere come mi sta questo vestito nuovo, come sono diventata brava a camminare sui tacchi. Raccontarti le serate, i concerti, i calici di vino. 
Vorrei farti annusare la candela che ho sul tavolo, il thè che ho comprato l'altro giorno.
Farti sentire come canto, come suono, come sto zitta. 
Dirti che ci sono, che sto bene, che ce la sto facendo, così magari finisce che ci credo sul serio pure io;

Roba vecchia che avevo postato altrove e riposto qua pt.1

Stamattina, mentre tamponavo i capelli ancora umidi dopo la doccia, ho aperto l'armadio alla ricerca di qualcosa da mettermi per andare a lavoro. Nulla di troppo impegnativo, fuori fa un caldo pazzesco e non ho intenzione di indossare nulla di più formale di una t-shirt. E' difficile orientarsi tra i miei vestiti, tutti neri. Afferro quella che mi sembra una maglietta a maniche corte. Una a caso. 
La srotolo.
Non la vedevo da anni.
Non ricordavo di averla ancora.
Mi racconto una bugia, fingo di non ricordarmi il momento in cui me la regalasti.
Quella volta che ero rimasta a casa tua per la notte e avevo bisogno di una t-shirt per dormire perché stare nuda mi mette a disagio. Mi passasti quella maglietta. 
La indossai e mi dicesti che ero bellissima, mentre ero in ginocchio sul tuo letto.
"Sta meglio a te che a me".
Decidesti di regalarmela e io decisi di dimenticarmene.
Oggi ho addosso la tua maglietta
e mi sento bellissima.

venerdì 11 gennaio 2019

L'estenuante tiritera del dating 2.0 tra ghosting, breadcrumbs e instastories

Uno degli episodi di Black Mirror che mi ha traumatizzata maggiormente è stato lo special di Natale.

In particolare (smettete di leggere qui se volete evitare spoiler), vengo pervasa da un rinnovato senso di ansia ogni volta che penso al finale in cui il protagonista viene lasciato a marcire per un weekend in un non-luogo in cui il tempo è estremamente dilatato (un minuto nel mondo "reale" può equivalere fino a mille anni nel non-luogo). Mi fa rabbrividire ogni volta la "leggerezza" con la quale, chi è nel mondo esterno, imposta il timer che regola la permanenza del protagonista all'interno del non-luogo, condannandolo a un'eternità di prigionia. Del resto, per lui, si tratta solo di un weekend.
(fine spoiler).

Ecco, è con la medesima rilassatezza che vivo l'attesa di un messaggio importante.
O di un messaggio in generale.
Soprattutto se si tratta di una risposta a un mio messaggio, che magari mi sono decisa a mandare dopo ore di tentennamenti.
Non parliamo di nulla di particolarmente compromettente, ma ho recentemente scoperto che anche un "come stai? stasera ti va di uscire?" hanno assunto un significato e un peso diecimila volte maggiore rispetto a quello effettivo. E mi immagino sola, prigioniera nel non-luogo fatto di attesa, mentre magari il destinatario del messaggio sta, boh, dormendo o leggendo o facendo la cacca.
Così come mi immagino dall'altra parte, quando magari ricevo un messaggio da parte di qualcuno che ha meno presa sul mio corazon e che non mi faccio problemi a far aspettare sette ore per rispondere a un banale "che fai?", noncurante del fatto che magari a 'sto poverino parte un colpo apoplettico ogni volta che sente squillare il telefono e che viene pervaso dallo sconforto e dalla delusione quando scopre che non sono io ad avergli scritto.

Due minuti suoi pesano come ore mie e niente, Netflix chiamami.

La verità è che, dopo un periodo piuttosto lungo durante il quale sono stata fuori dal mondo del flirt e delle frequentazioni più o meno occasionali, mi sono ritrovata ad avere a che fare con una serie di codici comportamentali che, fino a quel momento, mi erano totalmente ignoti.

Mi spiego meglio.

WhatsApp, no? Avete presente.
Croce e delizia.
Allora, tanto per cominciare, i fichi veri devono necessariamente oscurare l'ultimo accesso e non mostrare le spunte blu della conferma di lettura. Perché se non ti cago, non deve esserti subito chiaro, no. Devi avere il dubbio. Ti devi flagellare, pensando che forse non ho visto, che forse sto lavorando, che forse sono impegnata in un'importante manovra finanziaria che salverà il Paese dalla crisi. O che, peggio ancora, sto intrattenendomi con un'altra persona.

L'ambiguità è la chiave.
Devi far vedere che sei interessato ma non troppo, rispettare un preciso pattern di silenzi prolungati alternati a conversazioni brevi e sostanzialmente vuote, durante le quali è stra-vietato anche solo menzionare la situazione attualmente in corso tra te, brutta merda, e il povero cristo col quale ti stai interfacciando. Tutto quello che dici potrà essere usato contro di te.
Perché la sensazione che devi trasmettere, in questo gioco di potere tra decerebrati, è che non te ne sbatte una ceppa.
Ci sei o non ci sei, non mi cambia poi così tanto.
Ho cose da fare, ho altro per le mani, ho delle alternative.
Sei solo un moscerino che, per puro caso, si è spiaccicato sul parabrezza della mia vita (per dirlo alla Garfield).
Le cosiddette breadcrumbs, letteralmente "briciole di pane". Dare attenzioni estremamente dosate, quel tanto che basta ad alimentare le speranze, ma non abbastanza da trasformarle in certezze.

Lui ti risponde dopo venti minuti?
Allora tu devi rispondere dopo quaranta.
Ma perché?
Come perché? Vuoi sembrare disperata?
Certo che no!
E allora fallo aspettare!

E così passano i giorni, le settimane, i mesi.
Vi vedete, passate del tempo assieme, ridete, scherzate, magari finite a letto. Poi ognuno a casa sua e che nessuno menzioni quello che è successo, per carità!

Questa conversazione non è mai avvenuta.
Quale conversazione?
Esatto.

E poi, da capo il silenzio opprimente.
Hai fatto qualcosa di sbagliato? E chi lo sa.
Passerai le prossime ore - se sei più sfortunato, giorni - ad analizzare ogni dettaglio di quello che hai fatto/detto. Sei stato impertinente? Inopportuno? Cafone?
Eppure sembrava stesse andando così bene.
Vabbè dai, scrivo io.

EH NO! Non sei il cagnolino di nessuno, se ti vuole, ti cerca.

Chiaramente escludiamo a priori che, nel buio della sua cameretta, il nostro target si stia dedicando con passione al medesimo onanismo mentale.

E le storie su Instagram? Altra honorable mention di questo strazio, di questo stillicidio imbarazzante.
Diciamocelo, non hanno un cazzo di senso 'ste storie di merda.
Sono una robina inutile che si autodistrugge dopo 24ore dalla pubblicazione.
Però tutti le fanno, tutti ne sono ossessionati.
Perché?
Perché vedi chi le vede. Sono l'equivalente social di una raccomandata con ricevuta di ritorno.
E se ha visto la tua storia allora inequivocabilmente gli interessi, allora adesso sa che stai facendo questa cosa e che ti stai divertendo una cifra.
E quindi pubblichi foto di repertorio di serate in discoteca e calici di vino, affinché lui possa guardare e rosicare e sapere che stai passando una bella serata e che, se non fosse stato troppo orgoglioso per scriverti, avrebbe potuto esserci lui dall'altra parte del tavolo.
Che poi tu in realtà sia rimasta a casa a guardare documentari sui serial killer su Netflix, è un dettaglio che non è necessario divulgare se non nei gruppi terapeutici con le tue amiche, che verosimilmente stanno vivendo i medesimi tormenti con altrettanti imbecilli.

Vietato mettersi a nudo, vietato mostrarsi presi, vulnerabili, o anche solo interessati.
Pesare ogni parola, ogni emoji (attenti ai cuori: ok quelli colorati, quelli rossi sono vietati, troppo impegnativi), benedire almeno due volte al giorno, rivolti verso la megavilla di Zuckerberg, la funzione "elimina per tutti" di WhatsApp, che ci offre qualche minuto extra per ripensare alla menata da sottoni che abbiamo scritto e tornare sui nostri passi con un elegante "scusa, non era per te".

E così, i tempi si dilatano a dismisura e riconoscere una persona come si deve da un idiota qualsiasi - cosa che prima richiedeva pochi giorni - diventa un processo lunghissimo e ambiguo.

E ad ogni caso umano incontrato, ad ogni nuova delusione, corrisponderà un'ora di silenzio extra che faremo patire al prossimo sventurato.

Buon 2019, babiez.