martedì 29 novembre 2016

Sundays

Le domeniche più belle erano quelle in cui la luce del sole entrava di soppiatto dalla finestrella in alto, quella coi vetri rigati che non chiudevamo mai.

Aprivo gli occhi, mi guardavo intorno ed era tutto sospeso: le pareti bianche, i poster mezzi scoloriti (Radiohead, Dire Straits, Blues Brothers, e i Pink Floyd sulla porta), i sottobicchieri che procacciavo per te con un'assiduità che prima di allora avevo riservato solo alle figurine dei Pokémon, quando ero piccola.

I miei occhi vagavano per la stanza, avidi di ogni dettaglio, mossi dal timore di dimenticare come s'incrociavano i tubi sul soffitto, o quali fossero i punti in cui il pavimento in linoleum era lacerato.

Alla fine, quando ero ormai sazia di dettagli, mi voltavo a guardarti. Le ciglia chiuse, l'espressione distesa, i capelli arruffati. Ti osservavo dormire e tu percepivi il mio sguardo. Sorridevi, con gli occhi ancora nascosti dalle palpebre. Con le mani mi cercavi e mi trovavi, mi stringevi e sorridevi ancora, di più.

Mi stringevo a te, col mio orecchio sul tuo cuore. E pensavo che quel battito era solo per me, e che era splendido e terribile non poter abbracciare un suono. Non esiste un modo per portare con me quel battito. L'ho lasciato ai miei ricordi, alla mia testa che ne modifica ritmo e intensità a suo piacimento, come se non fosse stato importante, come se una cosa valesse l'altra.

Ci alzavamo, ci rivestivamo intervallando ogni gesto a un bacio, o un abbraccio, o una qualsiasi cosa che ci tenesse sospesi ancora per un po'. Non c'era fretta, non c'erano cose da fare. Sì, l'università, lo studio, la laurea, ma alla fine chissenefrega. C'eri tu, c'ero io. C'era la tua chitarra, la vecchia PlayStation e quel gioco che non abbiamo finito mai. C'era la musica che veniva dal piano di sopra. C'erano le bottiglie vuote, i vestiti sul pavimento, i posacenere, gli oggetti dimenticati. E noi che rendevamo romantico il disordine senza alcuno sforzo. Bastavano i nostri corpi a rendere splendide quelle lenzuola logore e strappate.

Alle volte, uscivi dalla stanza mentre io ancora combattevo con la voglia di rivestirmi. Tornavi e avevi in mano due tazzine di caffè.
Uscivamo, il profumo dei gelsomini mi mandava in estasi. Lo sai che è il mio profumo preferito, quello dei gelsomini? Lo sai, te lo dicevo ogni volta.
Percorrevamo il viale mano nella mano, con me che trotterellavo felice e guardavo il cielo e poi gli alberi, i gatti, le vecchine appollaiate sui balconi. E guardavo te, e ogni tanto ti sorprendevo a guardarmi e a sorridere.

Percorrevamo in auto la strada che separava le nostre case e io guardavo il mare e ti dicevo che, magari, la domenica successiva avremmo potuto fare una passeggiata là. Mi dicevi che sì, andava bene, e di domeniche ne sono passate davvero tante, ma quella passeggiata non l'abbiamo fatta mai.
Mi prendevi la mano ogni volta che cambiavi marcia. Mi baciavi ad ogni semaforo.

Mi lasciavi sotto casa e mi baciavi, e io baciavo te e ridendo ci chiedevamo se avremmo mai smesso di baciarci, se saresti mai riuscito a riaccompagnarmi a casa e a lasciarmi andare senza baciarmi mille volte, prima.


Non ci sei riuscito mai.